BERRUTO: l’impegno conta più del risultato
L’opinione di Carlo Nesti,
Mi è sempre piaciuto paragonare la volontà a un arco, e il destino a una freccia, scoccata verso il cielo. La prima parte della traiettoria, ascendente, dipende da noi: dalla direzione che abbiamo stabilito con l’arco, e dalla potenza che abbiamo impresso alla freccia. In ciò, siamo in grado di condizionare la sorte. La seconda parte della traiettoria, discendente, non dipende da noi, ma dal vento che, in quel momento, attraversa il cielo. Possiamo solo osservare che succede, in attesa di sapere dove cadrà la freccia, se vicina o lontana dal bersaglio. È la sorte, esclusivamente, a guidarla verso la fine del percorso.
Gesù, da un lato, afferma: “Non chiunque mi dice: «Signore, Signore»,entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è neicieli” (Mt 7,21). Dall’altro, insegnandoci il Padre Nostro (Mt 6,9-13),afferma: “Sia fatta la tua volontà”. Prima c’è l’azione (libero arbitrio), poi l’accettazione.
Analogamente, nello sport, ci si impegna per raggiungere un risultato, ma poi occorre accettare il verdetto, perché, se non esistessero un “primo” e un “secondo”, non esisterebbe la competizione. Nelle Olimpiadi di Londra, ad esempio, siamo stati primi 8 volte, secondi 9, e terzi 11, subendo qualche torto.
Mauro Berruto
Mauro Berruto, allenatore della Nazionale di pallavolo maschile, medaglia di bronzo: “La Cagnotto, la Ferrari e Cammarelle, che avrebbero il diritto di recriminare, al di là del dispiacere, sanno che avere realizzato bene il loro lavoro conta più del risultato, legato ad altri fattori, compresi arbitro e giuria”.
È attraverso parole, come queste, che lo sport diventa una metafora perfetta della vita. Noi dobbiamo sempre cercare di dare il massimo, cristianamente, come ci chiede Gesù, ma non è detto che il “premio” sia già raggiungibile su questa Terra. E la sconfitta, con le sue “lezioni”, è un tesoro per il futuro.
Il business, purtroppo, non ha niente a che fare con il messaggio del Signore, perché esige la vittoria, ad ogni costo, trasformando l’atleta in un “prodotto” da vendere. Il marciatore Alex Schwazer, primo a Pechino 2008, non ha saputo resistere alla pressione, e ha ammesso il doping. Apprezziamo, almeno, l’onestà.