Sport: linee interpretative e indicazioni prospettiche

Don Carlo Nanni, salesiano
Docente di filosofia dell’educazione e teoria della scuola, Università Pontificia Salesiana

Ho interpretato il mio compito approfondendo i quattro termini del titolo (oratorio, tempo libero, turismo e sport) alla luce delle istanze di educatività e degli ambiti di testimonianza cristiani indicati al convegno di Verona (16-20 ottobre 2006). Ma ho tenuto anche presente le pressioni e le stimolazioni che vengono dal contesto e dalle “res novae” con cui, giovani e adulti, abbiamo a vivere (globalizzazione, nuove tecnologie informatiche telematiche robotiche, sviluppo delle neuro scienze e delle bio-tecnologie, multiculturalità e multireligiosità diffusa, complesso e talora duro clima etico, religioso, ideologico, politico, civile, ecc.).

Oltre che a leggere e ad interpretare, come mi era richiesto, mi sono dato pensiero a ricercare risorse e avanzare prospettive di intervento educativo, cercando di evidenziare quelli che don Bosco chiamava “il punto accessibile al bene”: individuali, comunitari, contestuali.

1. Testimoni di speranza nell’ambito personale sociale del lavoro e della festa

Al Convengo ecclesiale di Verona si è voluto che l’esercizio della testimonianza presti attenzione ad alcune grandi aree dell’esperienza personale e sociale, per dare forma storica alla testimonianza e alla speranza cristiana, facendo emergere un sentire e un pensare illuminato dalla luce che il Vangelo proietta su ciascun campo dell’umano.

Come si ricorderà, il secondo ambito è quello del lavoro e della festa, del loro senso e delle loro condizioni, nell’orizzonte delle trasformazioni materiali del mondo e delle relazioni sociali.

Se nel lavoro l’uomo esprime la sua capacità di produzione e di organizzazione sociale, nella festa egli afferma che la prassi lavorativa non ha solo a che fare con il bisogno ma anche con il senso del mondo e della storia.

Nella società postindustriale e globalizzata il lavoro sta mutando radicalmente fisionomia e pone problemi di competenza, di concorrenza e distribuzione mondiale, e nuovi problemi di impiego, e soprattutto di inserimento delle nuove generazioni. Il superamento di una organizzazione della produzione che imponeva alla maggior parte dei lavoratori un’attività ripetitiva, rende oggi possibile favorire forme di lavoro più rispettose delle persone, che ne sviluppano creatività e coinvolgimento, che non umiliano, cioè, la persona, ma le consentono di partecipare attivamente alla produzione del bene comune: pur nella prospettiva di un apprendimento e aggiornamento continuo, che consente flessibilità e adattamento all’incessante cambiamento tecnologico.

Ma, soprattutto per i giovani, spesso la conclamata flessibilità significa precarietà e incertezza che non fa vivere bene neanche il tempo libero. A motivo di ciò, molti giovani, infatti, lo vivono non come tempo di creatività e di libertà, ma come tempo “vuoto”, da riempire ossessivamente e angosciosamente con l’evasione, il disimpegno e lo stordimento.

2. L’esigenza dell’educazione per la testimonianza cristiana

Sempre a Verona, un tema trasversale, magari al di là delle intenzioni esplicite degli stessi organizzatori, è stato quello dell’educazione. Essa è stata indicata dai partecipanti come una vera e propria emergenza. Lo si è affermato in tutti gli ambiti di approfondimento: da quello relativo alla sfera affettiva e relazionale, a quello del lavoro del tempo libero, a quello delle fragilità e della tradizione, a quello della cittadinanza.

Si è insistito sulla formazione delle coscienze al fine di risvegliare il coraggio delle decisioni definitive; sull’importanza di educare l’intelligenza, la libertà e la capacità di amare; ma anche sulla formazione scolastica e professionale e sull’educazione alla partecipazione e al dialogo: quasi arrivando ad una sorta di “progetto formativo permanente” che rigeneri l’essere, l’agire e il linguaggio credente, giovanile e adulto.

Come ha sottolineato papa Benedetto XVI nel suo discorso all’assemblea la mattina del 19 ottobre, «perché l’esperienza della fede e dell’amore cristiano sia accolta e vissuta e si trasmetta da una generazione all’altra, una questione fondamentale e decisiva è quella dell’educazione della persona. Occorre preoccuparsi della formazione della sua intelligenza, senza trascurare quella della sua libertà e capacità di amare. E per questo è necessario il ricorso anche all’aiuto della Grazia. Solo in questo modo si potrà contrastare efficacemente quel rischio per le sorti della famiglia umana che è costituito dallo squilibrio tra la crescita tanto rapida del nostro potere tecnico e la crescita ben più faticosa delle nostre risorse morali».

E ha continuato, precisando anche la qualità intrinseca di tale azione educativa:

«Un’educazione vera ha bisogno di risvegliare il coraggio delle decisioni definitive, che oggi vengono considerate un vincolo che mortifica la nostra libertà, ma in realtà sono indispensabili per crescere e raggiungere qualcosa di grande nella vita, in particolare per far maturare l’amore in tutta la sua bellezza: quindi per dare consistenza e significato alla stessa libertà. Da questa sollecitudine per la persona umana e la sua formazione vengono i nostri “no” a forme deboli e deviate di amore e alle contraffazioni della libertà, come anche alla riduzione della ragione soltanto a ciò che è calcolabile e manipolabile. In verità, questi “no” sono piuttosto dei “sì” all’amore autentico, alla realtà dell’uomo come è stato creato da Dio».

3. In oratorio

Nella tradizione educativa cristiana l’oratorio è stato sempre considerato e vissuto come un luogo privilegiato di educazione. “Gioco e catechesi” è il binomio su cui si regge per tradizione l’Oratorio. Se si toglie una qualunque delle due parti del binomio, la fisionomia dell’Oratorio sparisce. In esso, il cortile viene a essere il luogo e il terreno privilegiato in cui si vive e ci si incontra nella spontaneità, nell’amicizia e nella familiarità, ma anche dove, nell’occasionalità e nella informalità dell’incontrarsi, si può realizzare una relazione educativa amorevole e vicina, che può arrivare a punte di profondità, di intimità e di personalizzazione non raggiungibile altrove o nelle forme organizzate, che ad alcuni giovani potrebbero apparire un appesantimento in più di una vita già per loro variamente sentita come pesante.

3.1. Nel contesto di nuovi e complessi scenari

È pur vero che in questi ultimi anni la fisionomia dell’oratorio e dei centri giovanili è cambiata abbastanza.

L’oratorio/centro giovanile non ha il monopolio dell’incontro di ragazzi e giovani, né totalizza il loro tempo libero. Non tutti ci vanno, come non tutti vanno in parrocchia. Molti poi combinano la frequenza dell’oratorio o del centro giovanile con la palestra, la danza, lo sport, la squadra, gli amici; oppure rimangono a casa, da soli o con qualche amico o amica, a sentir musica, a giocare con il computer o con la play station, oppure esercitandosi nello “zapping” con il telecomando, o “abbioccandosi” davanti alla televisione a vedere telefilm (magari tutt’altro che pacifici e teneri). Al­tri preferiscono altre frequentazioni e luoghi di incontro: per strada, con i motorini, presso questo o quel muretto, “stravaccando” per ore e ore; quando non vanno a mettersi in certi giracci che puzzano di “fumo”, di droga, di microcriminalità o semplicemente di balordaggine e di giochi “estremi”. Oppure frequentano altre organizzazioni, laiche o di altro tipo.

Ma le novità sono anche altre: girano ormai negli oratori e nei centri giovanili (come anche a scuola e in parrocchia) facce di colore diverso dal nostro, ragazzi e ragazze di civiltà diversa (slavi, africani, asiatici, latino-americani…), di religione non cattolica (musulmani, ortodossi, aderenti a sette varie…), che vengono ad assommarsi a coloro i quali, a causa della loro socializ­zazione familiare, non sanno neppure dove la serenità familiare e la vita religiosa stiano di casa.

Come si usa dire le nostre città, la nostra convivenza sociale, la vita quotidiana, assumono sempre più i tratti di una società multietnica e multireligiosa. Si pone di conseguenza il problema di una nuova cittadinanza, che non sia rigidamente locale o nazionale, ma piuttosto “multipla” o “plurale (vale a dire insieme e differenziatamene locale, nazionale, europea, mondiale, e per il credente persino anche… “celeste”!). E in ogni caso diventa urgente dare una adeguata strutturazione alla convivenza civile in modo che sia al contempo democratica e che permetta a tutti, specie a chi è giovane o straniero, di poter essere cittadini a pieno titolo come gli adulti e i giovani, nel rispetto (e nella promozione) di quella differenza che è ricchezza, stimolo all’ulteriorità e al di più, ad una innovazione coraggiosa, ad un futuro civile, ad una vita umanamente e qualitativamente degna per tutti e ciascuno. Questi problemi civili sono diventati anche problema educativo emergente: imparare a vivere insieme con gli altri è la novità del rapporto Delors dell’Unesco per l’educazione del XXI secolo.

3.2. Nelle molteplici e nuove potenzialità educative dell’oratorio di oggi

In questi scenari epocali, forse oggi, più che in passato, l’oratorio ha da essere – come si dice nella tradizione salesiana – “casa che accoglie, scuola che istruisce, parrocchia che evangelizza, luogo dove ci si incontra e si impara a stare insieme nella gioia”, pur aprendosi al territorio e vivendo con i polmoni, non sempre sani, delle nostre città.

Proprio per il suo costituzionale porsi come ponte tra luoghi (cioè istituzioni protette e intenzionalmente finalizzate) e non luoghi (cioè spazi di convivenza libera e non troppo regolata), tra chiesa e società civile, tra istituzione e aggregazione spontanea, tra casa e piazza, tra scuola e territorio, tra lavoro/studio e ricreazione, tra formale e informale, oggi, l’oratorio è di nuovo riproposto da molti come il rimedio al degrado cittadino urbano o al troppo controllato vicinato di paese. Qualcuno invoca “uno dieci mille oratori” come rimedio al bullismo, alla microcriminalità, alla noia e allo sballo giovanile.

Infatti l’oratorio può accogliere e venire incontro non soltanto a giovani che hanno interessi formativi dichiarati o a gruppi di impegno o all’associazionismo religioso ma anche ai tanti ragazzi “comuni”, poveri, senza etichetta, senza troppe appartenenze e senza altra patente se non quella della collocazione nella “generazione invisibile” e nella “generazione senza” (come solitamente viene letta la condizione giovanile attuale); e che magari all’Oratorio vengono solo per giocare o stare tranquillamente senza troppi impegni precisi, per uscire di casa e non stare in strada.

Nell’Oratorio, oltre una pastorale associativa e formalmente organizzata, si può fare una pastorale “soffice”; una pastorale che con mezzi poveri, con il gioco, la festa, il clima familiare, la serenità e la “pulizia” del luogo (che saranno pertanto da garantire, tutelare, ricercare, curare) fa emergere quasi “per simbiosi” i valori e il senso evangelico, auroralmente contenuti in ogni esperienza di vita che i giovani fanno; senza richiedere troppa implicazione (se non minimamente ed essenzialmente o indirettamente) in attività ecclesiali proprie e solo della Chiesa (come la catechesi, la liturgia, la predicazione al popolo, l’azione caritativa); ma piuttosto vivendo insieme, permettendo o offrendo attività “secolari” umane come sono il gioco, il canto, il turismo, lo sport.

Ciò senza perdere la sensibilità missionaria, quella che faceva dire a don Bosco «Io voglio essere il parroco dei giovani che non hanno parrocchia, io voglio essere il maestro di quei giovani che non hanno scuola».

Come si dice negli ambienti salesiani, all’oratorio si può evangelizzare educando, facendosi “presente”, “approssimandosi”, cioè andando verso (e non solo in senso geografico) e facendosi “prossimo” (e non solo in senso fisico), condividendo, testimoniando e promuovendo gli interessi culturali, le esigenze espressive e comunicative, le preoccupazioni comuni di ogni ragazzo/a: offrendo loro la possibilità di una integralità di vita che respira il buon profumo di un ambiente evangelico.

In questa linea operativamente e educativamente si è invitati a dare importanza alle esperienze di vita giovanili fondamentali (amicizia, acquisizione di cultura, inserimento sociale), aiutando o invogliando a cogliere in esse e a dar loro consistenza umana ed evangelica, integralità personale e sociale, respiro comunitario e senso di solidarietà civile, promuovendo la compartecipazione, il protagonismo e l’apporto delle diverse condizioni giovanili personali, presenti nell’oratorio e dintorni.

4. Il tempo libero, tra svago, divertimento e tempo di libera occupazione

Ci comporta, a mio modo di vedere, di approfondire gli altri termini messi a titolo del Seminario: a cominciare dal tempo libero.

«Lo svago può essere posto, insieme al culto e con l’istruzione, tra le attività umane di carattere universale che caratterizzano tutte le società».

4.1. Il tempo libero nella tradizione occidentale tra ambiguità e ambivalenza

Aristotele considerava il tempo libero privilegio dell’uomo libero, che può dedicarsi alla vita intellettuale e alla filosofia, riconoscendo allo schiavo soltanto la necessità del riposo e dello svago per ristabilire le energie fisiche dissipate dal lavoro.

A seguito dell’cristianesimo il tempo libero acquista un nuovo significato sia come festa religiosa, a cui tutti sono chiamati, per celebrare la gloria di Dio, sia come superamento e integrazione del tempo creato in un tempo eterno. Osserva M. Eliade: «Una festa ha sempre luogo nel Tempo originario. E appunto la reintegrazione di questo Tempo originario che rende il comportamento umano durante la festa diverso da quello prima e dopo la festa>>.

Nella società moderna industrializzata, l’invenzione della macchina e la produzione in serie dei beni di consumo garantiscono a molti una maggiore “quantità” di tempo libero, ma nello stesso tempo portano ad un impoverimento della “qualità” di esso, sia psicologicamente, perché è considerato solo un “intervallo” per potere rendere di più nel lavoro, sia culturalmente, perché l’abbondanza dei beni di consumo porta alla dispersione dei divertimenti.

Il tempo libero si presenta nella società contemporanea in tutta la sua “ambiguità” ed “ambivalenza”, perché può essere occasione di realizzazione personale e di partecipazione sociale, ma anche di alienazione e di dissipazione.

Ciò è tanto più vero perché nella società contemporanea la stanchezza è più nervosa che muscolare, più psichica che fisiologica. Siamo tutti facilmente stressati. Si ha obbligatoriamente bisogno dello svago e del divertimento per rilassarsi e disinibirsi dopo la fatica. In tal modo però, come aveva già notato B. Pascal, il divertimento diventa una evasione fittizia, perché ci trastulla ma non ci libera: «ci fa arrivare insensibilmente alla morte»[6].

La comicità e l’umorismo, che tanta parte hanno nello svago, sono un primo segno del superamento del divertimento, ma forse soltanto una cultura, gratuita e disinteressata, oltre ogni logica della produzione e dei consumi, può liberare il tempo libero (che in qualche modo così riprende certe intenzionalità umane che erano presenti nell’idea della “scholé” e dell’ “otium” classici).

Certamente dà spessore al tempo libero il realizzarsi nella figura del gruppo, del “noi-altri”; nell’esperienza del “noi” amicale e conviviale, senza altro scopo che quello di stare insieme; e più ancora quando, insieme, si produce qualcosa che torna a vantaggio di chi è nel bisogno o che comunque è socialmente e comunitariamente utile.

4.2. Il tempo di libera occupazione, fonte e stimolo per l’educazione

In tal senso, al fine di superare l’antinomia tra lavoro e svago, è, forse, da introdurre tra tempo libero e tempo occupato, il concetto (e la pratica) del “tempo di libera occupazione”[7], nel quale ci si sente occupati e responsabili come nel lavoro, ma in cui si svolge una qualche attività, non per necessità o per costrizione, ma volontariamente in spirito di gratuità e di generosità.

Le attività culturali spontanee, il servizio sociale volontario, la vita politica dei partiti, le attività caritative, la stessa esperienza religiosa delle diverse comunità ecclesiali si collocano in questo tempo, che non è lavoro retribuito e però neppure puro svago.

Il “tempo di libera occupazione” rivaluta la persona umana sul lavoro e sulla società, senza negare le attività economiche e le relazioni sociali, anzi, dando loro un valore che le necessità di lavoro e gli obblighi sociali di per se stessi non possono avere. L’uomo in questo tempo si sente padrone delle proprie azioni e delle proprie relazioni, continua, oltre le necessità, il suo impegno per migliorare le condizioni della sua famiglia e del prossimo, ed oltre gli obblighi giuridici continua a dare il suo contributo di partecipazione sociale nelle diverse comunità civili, culturali ed ecclesiali.

È questo tempo della libera occupazione che diventa fonte e stimolo educativo, favorendo il protagonismo, la creatività, ma anche il senso di compartecipazione e di solidarietà: sia con stili di animazione sia anche proprio come progettazione intenzionale, aiutando a passare da spettatori e consumatori ad essere “attori”, produttori, cogestori delle iniziative e delle esperienze che si mettono in atto.

5. Il turismo come fenomeno socio-antropologico

Strettamente collegato con il tempo libero è il turismo.

Nella storia dell’umanità non si è mai viaggiato tanto come negli ultimi decenni: per disponibilità di mezzi, per curiosità culturale o per il semplice piacere di farlo. Ma anche per una sorta di “dovere di vacanza” che ci obbliga, periodicamente, a lasciare il lavoro e la casa per fare turismo. Negli ultimi anni gode di una notevole attenzione da parte dei media.

5. 1. L’ “homo turisticus”

Il turismo investe la società e il costume. Non è un passatempo individuale, né lo si considera più un lusso. È un bene sociale, una conquista, un diritto e un bisogno. Lo si integra assieme ad altre attività in quella realtà più larga del tempo libero che rappresenta, nella valutazione dell’uomo di oggi, il momento più alto della propria espressione[8]. L’antropologo e scrittore Duccio Canestrini[9] parla di “homo turisticus” e di “nomadi del benessere”, con i loro riti e miti di viaggiatori.

Secondo alcuni, le modalità attuali del turismo sono allo stesso tempo causa e effetto della globalizzazione. Altri ne mettono in risalto le possibili strumentalizzazioni. Il turismo accelererebbe il diffondersi di pratiche imperialiste, consumistiche e anti-ecologiche nei nativi, distruggendo il loro ecosistema culturali.

Secondo alcuni etnografi il turismo assolverebbe ad una funzione di “rito di passaggio”, venendo ad essere un importante momento di cambiamento e di rinnovamento da parte di chi lo pratica; secondo altri studiosi rappresenta la ricerca dell’autenticità, una sorta di versione laica della ricerca del sacro, del viaggio spirituale, del pellegrinaggio di antica e medievale memoria (che, come è noto, Dante prende a paradigma del suo viaggio nei tre regni ultraterreni).

5.2. Il turismo responsabile e sostenibile e l’esigenza etico-educativa che si pone

Certamente il turismo è un punto di enorme interesse economico, visto il giro di affari e il numero di persone che coinvolge. Si arriva a dire che il turismo risulta la prima industria del pianeta. Un’industria in netta crescita. I tour operator agiscono all’interno di un settore economico in continua ascesa.

Oggi si parla di “turismo responsabile”[10], nel senso di tener ben collegate le presenze e le attività turistiche con lo sviluppo armonico del territorio verso cui si va o che si frequenta. Infatti l’impatto negativo che un turismo non controllato e non bene orientato può esercitare su luoghi e comunità, è ormai ampiamente riconosciuto. Certamente il turismo genera guadagni e benefici per le popolazioni nei luoghi di destinazione. Ma innesca anche dinamiche negative. Incide, nel bene e nel male, sull’ambiente naturale, sulla vita personale e socio-culturale e sull’economia e lo sviluppo locale. Si pensi, dal punto di vista negativo, alla distruzione di coste ed ambienti naturali per far posto agli insediamenti turistici, allo sfruttamento del lavoro minorile, al traffico illegale di specie protette per il mercato dei souvenir, alla perdita d’identità culturale delle popolazioni nei luoghi di destinazione, al turismo “sessuale” e a molte altre cose.

Per questo si richiede di essere turisti consapevoli tanto dei diritti quanto dei doveri, facendosi almeno un po’ carico dei problemi sociali e ambientali delle destinazioni.

E in questa linea si parla anche di “turismo sostenibile”. Lo stretto legame di dipendenza tra l’attività turistica e le risorse sulle quali questa vive (ambientali, culturali, umane) rende necessaria una riflessione sui modi di vivere e proporre il turismo.

Secondo l’OMT (l’Organizzazione Mondiale per il Turismo), lo sviluppo turistico sostenibile soddisfa i bisogni dei turisti e delle regioni ospitanti e allo stesso tempo protegge e migliora le opportunità per il futuro.

Questo processo dovrebbe portare alla gestione integrata delle risorse turistiche, in modo che la richiesta e la pratica turistica possano essere soddisfatte mantenendo al tempo stesso l’integrità culturale, i processi ecologici essenziali, la diversità biologica e le condizioni di base per la vita.

Ciò implica, in concreto, di promuovere responsabilmente, a tutti i livelli e nel rispetto reciproco, forme di turismo rispettose dell’ambiente e delle culture locali, in modo da conservarne nel tempo la qualità e le caratteristiche essenziali fisiche ed umano-culturali. Da parte di chi organizza e di chi pratica il turismo, diventa necessario un comportamento consapevole e corretto nei confronti di ambiente, società e culture dei paesi visitati.

In questa linea le associazioni di turismo responsabile cercano di sensibilizzare l’opinione pubblica circa il degrado che il turismo di massa può arrecare; invitano a non lasciarsi irretire dai “venditori di emozioni” e a non lasciarsi andare a condotte di deresponsabilizzazione, che si vuole legittimata dall’essere in vacanza; propongono modi più attenti e adeguati all’impatto che il turismo ha a livello culturale, civile e umano, indicano “buone abitutidini” e nuovi modi di fare turismo che siano appunto responsabili e sostenibili.

5.3. Il turismo giovanile e la sua tipicità

Per parte loro i giovani, per così dire, si buttano nel turismo e lo praticano con modalità proprie. In genere non può essere interpretato come una “voglia” passeggera. Esso sembra rispondere a certe tendenze tipiche della sensibilità giovanile di sempre, che magari sono accentuate dalla condizione in cui hanno da vivere nei paesi in cui si ha un largo accesso ai beni di consumo del mercato mondializzato.

È stato fatto notare che il turismo giovanile presenta alcune caratteristiche proprie[11]. La prima è che i giovani nel turismo non riposano, ma “vivono di più”; è per loro un’ “esperienza di vita”. La seconda è che quel prestigio sociale che accompagna certe forme di turismo adulto non ha importanza per i giovani; mentre acquistano importanza per loro i luoghi significativi, le persone interessanti, le attività utili, gratificanti o straordinarie. La terza è che il turismo giovane non è di regressione o di ritorno; non è tanto una rivisitazione di una situazione vissuta prima o un ritornare su luoghi o a tempi del passato, quanto piuttosto un aprirsi a nuovi orizzonti, a nuove conoscenze, a nuove emozioni, verso il nuovo e il di più di umano. È viaggiare per incontrare e così conoscere per esperienza diretta.

5.4. Il turismo come occasione formativa

Per giovani e adulti, il turismo può venire ad essere una significativa occasione di crescita umana.

Connesso con il tema del viaggio, dell’incontro, ricco di immaginario e di ritualità, che forse consumisticamente porta oggi a eccedere nell’acquisto di “oggetti di ricordo”, il turismo, quando è attuato in maniera responsabile e rispettosa, può far nascere rapporti e relazioni di amicizia non solo tra turisti, ma anche tra persone visitanti e comunità ospitante.

In ogni caso il turismo, anche quello “tocca e fuggi”, può dar luogo a forme di coscientizzazione e diventare un’occasione che fa crescere culturalmente, umanamente e in molti casi religiosamente (comunque e sempre, spiritualmente): coniugando conoscere, sentire emozionalmente ed esteticamente, capire, condividere, agire.

Dal punto di vista della crescita personale può aiutare ad ampliare i propri orizzonti e a saper accogliere la diversità per quello che è: un arricchimento della personalità e della cultura individuale e comunitaria.

Il turismo religioso, e soprattutto il pellegrinaggio acquista per molti giovani e adulti un suo significato tutto particolare. La forma comunitaria e partecipativa aggiunge valenze originali.

Nella riforma scolastica il turismo è posto nel quadro della educazione alla convivenza civile e democratica, e più direttamente nel riquadro della “educazione ambientale”. Per questo in molte scuole si cerca di favorire iniziative volte a stimolare, in una prospettiva di educazione permanente, sin dalla più tenera età, un atteggiamento di apertura e rispetto per il prossimo e di amore per il mondo naturale, per fare della terra un posto migliore in cui vivere e al contempo sentirsi emozionalmente e attivamente partecipi.

Sensibilizzazione, informazione, far buona esperienza pratica in situazione di gruppo ne possono costituire le grandi strategie.

Qualcuno arriva adire che nel turismo si hanno potenzialità di un “nuovo” umanesimo, in cui il benessere individuale è coniugato con lo sviluppo armonico del territorio e con la promozione di una convivenza civile globale equa, solidale, pacifica.

Nel Documento finale della Riunione dei Direttori Nazionali per la Pastorale del Turismo in Europa, svoltasi a Roma nei giorni 6 e 7 novembre 2006 e promossa dal Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, si afferma che la pastorale del turismo, considerata in una prospettiva ecumenica e attenta alla dimensione interreligiosa, può divenire un “laboratorio di frontiera per l’evangelizzazione”.

In ogni caso, per tutti, ma soprattutto per i giovani, il turismo è uno strumento formidabile per superare differenze ideologiche, barriere politiche e pregiudizi razziali. In tal senso lo si è chiamato persino “passaporto della pace”.

Promuoverlo e realizzarlo in oratorio, costituirà una valida strategia educativa.

6. Lo sport

Il grande storico e saggista olandese J. Huizinga è dell’opinione che la cultura umana nasce e viene trasmessa principalmente attraverso il gioco, perché per lui l’uomo è “Homo ludens” [12].

A prospettive simili giunge anche M. MacLuhan, il profeta delle comunicazioni sociali, secondo cui, vedendo come gioca una generazione, si scopre il codice della sua cultura[13].

Tutti i sondaggi sui ragazzi, adolescenti e giovani mettono in risalto l’ampio spazio che sta assumendo il tempo libero e in modo particolare l’attività sportiva.

6.1. Polivalenza e ambiguità dello sport

Ma ciò non è senza ambiguità. I rapporti tra sport e educazione non sono mai stati semplici. Fin dall’antichità, l’attività ginnica, espressione e momento vitale fondamentale nella formazione del giovane greco libero, ha avuto da contrapporsi agli eccessi dello sport competitivo. La prima tradizione cristiana vedeva nei giochi sportivi dell’epoca e nella partecipazione spettacolare ad essi un ostacolo alla crescita e alla vita di fede, quasi una forma di idolatria.

L’emergenza sociale dello sport nel nostro secolo, ne ha riproposto le valenze formative, etiche, sociali. L’organizzazione politica ne ha fatto un tramite ed una via privilegiata per rafforzare la coesione sociale, il consenso politico, la socializzazione degli ideali sociali dominanti, fino a farlo apparire buono per tutte le bandiere fossero esse democratiche o totalitarie, di destra o di sinistra[14].

L’accresciuta capacità di accesso di gran parte della popolazione ai beni di consumo e alle possibilità sociali di divertimento ha diffuso lo sport distensivo, lo sport del tempo libero o cosiddetto “amatoriale”. Ha spinto molti giovani ed adulti, uomini e donne, a ricercare attraverso la ginnastica e lo sport la buona forma fisica: fino ad un certo culto per essa.

Peraltro non sembra lontano dal vero l’affermare che in molti non è assente anche un’intenzione di affinamento personale interiore, relazionale e culturale; sicché, pur non senza problemi, per molti lo sport rappresenta una vera attività formativa di base e poi di formazione continua per mezzo del movimento, del gioco con regole, dell’interazione di gruppo.

In tal senso lo sport, come il turismo, resta una formidabile risorsa di educazione informale[15].

6.2. Sport e problematiche socio-culturali personali

Tuttavia, per vari motivi, spesso tale risorsa risulta difficile da sfruttare.

Il divismo e il desiderio di vincere sono stati pubblicizzati e sollecitati. Le “stars” sportive sono diventate figure di riferimento per ragazzi e ragazze, per adolescenti e giovani, ma anche per tanti adulti. Lo sport è diventato un bene di consumo, uno spettacolo prima ancora che una attività. E’ diventato un prodotto da commerciare e uno strumento di manipolazione politica di massa. Serve a canalizzare bisogni e aspirazioni e sottilmente forma mentalità “su misura” di chi è interessato a certi comportamenti piuttosto che altri.

Ma le insidie alla intenzionalità educativa nello sport, non vengono solo dalla professionalizzazione, dalla commercializzazione e/o dalla politicizzazione dello sport.

Nello sport infatti vengono a confluire le difficoltà presenti nei mondi vitali e nella vita associata. L’enfasi sul successo e su un’autorealizzazione piena (veicolata dal sistema della comunicazione sociale e dalla socializzazione dominante) ha da fare i conti con il logoramento delle relazioni interpersonali e sociali, con il degrado della vita politica e civile, con il disinteresse per il bene comune e per i beni collettivi, con l’arroganza della criminalità organizzata e mafiosa. La sofferenza esistenziale e la voglia di uscire da questi percorsi sociali perversi non trova sempre sbocchi di un certo affidamento. È facile che la soglia della capacità di sopportazione individuale e collettiva venga superata. Aggressività, intolleranza, eliminazione del diverso diventano per molti le uscite di sicurezza, rispetto all’impossibilità di un vita serena, tranquilla, assicu­rata professionalmente e civilmente.

Nello sport vengono a scaricarsi i desideri repressi, le incapacità non formate, le aspirazioni frustrate, le prospettive mancate, le promesse non mantenute, le idealità assolutizzate e non misurate realisticamente con le possibilità concrete e le situazioni storiche.

Lo sport diventa la valvola di scarico della cattiva qualità della vita civile, l’eco del malessere sociale e la cassa di risonanza del disagio giovanile ed adulto. Diventa il luogo dove vengono a far massa le idealità moderne, per un verso, troppo fissate sull’individuo, il suo benessere, la sua privata libertà, il successo personale e, per altro verso, troppo sbilanciate sull’operatività efficiente, troppo affidate alle possibilità della razionalità scientifico-tecnica, troppo rinchiuse entro la curva storica dell’esistenza, troppo poco aperte alla trascendenza temporale e religiosa.

6.3. Necessità di prese di posizioni etico-pedagogiche

Di fronte a queste differenziazioni, ambiguità e difficoltà, occorrerà prendere posizione e fare delle scelte o perlomeno “intenzionare” in modo corretto ed umanamente degno le possibilità che la pratica personale e sociale sportiva, pur tuttavia, offre, perchè possa essere una via, un modo di espressione e di promozione umana e, per quel che ci interessa, un modo di educazione valido oltre che efficace, in particolare in sede oratoriana.

Evidenzio alcuni punti di riferimento per prese di posizioni e scelte pedagogiche che intendono porsi in questo orizzonte di senso

1. Tra le molteplici e legittime intenzioni che possono animare la proposta e l’organizzazione sportiva, la scelta educativa si caratterizza per la priorità che viene data alla finalità di far crescere le persone non soltanto nei valori più immediatamente legati allo sport (sviluppare ad esempio la capacità motoria o la competitività, il senso della corporeità, il valore della vita di insieme, il senso della disciplina e dello sforzo, il rispetto delle norme), ma nella globalità della vita personale.

Schierarsi dalla parte di uno sport educativo vuol dire mettere la persona al di sopra dell’organizzazione, al di sopra dello spettacolo e al di sopra del trofei di vittoria, che pure non guastano!

In tal senso, ciò richiede previamente di individuare quali valori umani e di vita sono rafforzati e quali invece sono mortificati in una data concezione dello sport.

2. Ricercare intenzionalmente uno sport educativo significa, inoltre, avere chiara una prospettiva di crescita integrale di tutti e di ciascuno, in cui la “mens sana in corpore sano”, si coniuga con la crescita delle persone e con una vita comunitaria “civile”, equa: nell’orizzonte di uno sviluppo sostenibile per tutti e ciascuno. In tal senso lo sport si collega e implica un vero e proprio “umanesimo integrale” [16].

3. A questo scopo, c’è da guadagnare una cultura democratica e solidale dello sport, che nello e attraverso lo sport educa alla tolleranza verso l’altro, alla “differenza”, all’accoglienza del “diverso”, del “disomogeneo”, al dialogo e alla comunicazione anche con chi la pensa diversamente, alla condivisione (e magari al “saperci stare”), a “saper dare” ma anche a “saper ricevere”, alla partecipazione e al saper stare “insieme”, alla partecipazione e all’integrazione sociale, alla solidarietà nei confronti non soltanto delle persone vicine (amici, compagni, persone care…), ma anche di quelle lontane per ragioni di distanza sociale, culturale, comunicativa, affettiva (e, nel caso specifico, agonistica) [17].

4. Ma la scelta educativa nello sport richiede e fa forza sull’esistenza di una comunità che sia soggetto dei processi di crescita; e che a questo fine si dà (e viene a giustificare l’importanza di) una solida organizzazione gestionale delle attività e delle proposte.

Il concetto di comunità educativa oratoriana a sua volta richiama quello di continuità e di integrazione tra le istituzioni sociali (e il loro globale dovere educativo); e a livello ecclesiale rimanda al concetto e alla prospettiva della pastorale d’insieme e di animazione cristiana del territorio[18].

7. L’antica e sempre nuova questione formativa

Peraltro, per chiunque è interessato alla educatività dello sport e dell’attività turistica, e in genere della animazione educativa dell’oratorio[19] – soprattutto quando essa è assunta a scopo primario dell’istituzionalizzazione di organizzazioni sportive o turistiche apposite – diventerà prioritaria una politica di formazione non solo tecnica, ma umana, civile, politica e pedagogica di coloro che, direttamente e indirettamente, promuovono e gestiscono la pratica sportiva o l’animazione delle iniziative turistiche o comunque del tempo libero, soprattutto giovanili.

L’antico adagio: “chi formerà i formatori”, oggi più che ieri, nel contesto delle “res novae” e della multiculturalità della globalizzazione, ha una sua cogente fondamentalità.

La competenza professionale è certamente basilare. Ma al tempo stesso si richiede che si abbiano anche capacità fondamentali di educatori, in modo da essere altrettanto validi e significativi in ordine ad un modo di essere e di comportarsi umanamente degno, civilmente rispettabile, socialmente solidale e corresponsabile, interiormente ricco ed aperto a tutte le dimensioni della vita.

7.1. La “partita pedagogica”

Negli ambienti oratoriali si parla spesso di “centralità del ragazzo” con le migliori intenzioni di questo mondo. Ma c’è il rischio di farlo diventare l’ “oggetto” delle “cure educative” di noi adulti, ossessivamente preoccupati di non far mancare a lui niente che non sia in ordine al suo “successo educativo”! Al centro c’è piuttosto “la crescita e la valorizzazione della persona”. L’educazione non è tanto azione degli educatori “sugli” e “per” gli educandi, è funzione della relazione educativa “tra” educatori e educandi, in vista della personalizzazione “competente” e della buona qualità della vita propria, altrui e comune. Gli educandi non sono né oggetti, né utenti, né destinatari, ma soggetti attivi e protagonisti responsabili, per quanto e nelle forme che loro sono date, fin dai primi passi della loro vita.

La relazione educativa non si chiude in una relazione dualistica e intimistica di io-tu, pur essendo fondamentale tale aspetto; e non si chiude neppure nel gruppo classe “auto-gasato” o nel gruppo laboratoriale elettivo “in fusione”; la relazione educativa ha le dimensioni e l’ampiezza della vita nella sua globalità e nelle sue articolazioni, modalità e tempi, procedure e stili.

L’educazione, per dirla in termini sportivi, assomiglia a una “partita pedagogica”, che trova nella comunità educativa non solo l’ambiente e lo strumento, il “campo”, ma anche il soggetto di referenza ultimo e il fulcro promotore primo, le diverse “squadre”, in cui i diversi soggetti individuali e sociali, ognuno per quanto loro compete, interagiscono e agiscono “insieme” (come squadra, come giocatori con diversi ruoli, come arbitri, come segnalinee, come tifosi, ecc.).

Agli educatori e animatori compete attivare, stimolare e promuovere, far fare pratica di libertà e di valori, sostenere e accompagnare affettivamente, orientare responsabilmente, far interagire proficuamente tutte le componenti e i soggetti della comunità educativa oratoriana in collegamento con le famiglie e con il territorio[20].

7.2. “Farsi l’occhio all’educazione”

La “partita pedagogica” richiede agli adulti educatori e animatori competenza e “allenamento”.

La tradizione diceva che se si voleva insegnare a “Pierino” la matematica anzitutto occorreva conoscere Pierino e il suo contesto. In questo senso è basilarmente è importante:

1) “farsi l’occhio all’educazione”, vale adire leggere educativamente la realtà in genere, e quella giovanile in particolare, dando priorità al personale: arrivare e conoscere le persone “con il nome e cognome”; vedendo e cercando di scoprire in essi e attorno ad essi il potenziale oltre che l’effettivo (= le risorse soggettive e contestuali); leggendo persone, fatti e eventi al positivo-valoriale incoraggiante e non al negativo-deprimente e scoraggiante (in tutti c’è del bene e c’è da dire dei “sì”, oltre che dei “no”, che aiutino a crescere!).

2) vivere, pensare, valutare, agire “alla lunga e alla grande” e non lasciarsi pigliare dalle minuzie, dalle grettezze del momento, dalle angustie del presente o dalle “paturnie” personali .

3) porsi in una prospettiva di “crescere, liberarsi, educarsi insieme”, comunitariamente e intergenerazionalmente.

4) e prima di tutto saper accogliere i ragazzi come sono e per quello che sono: solo così si potrà stimolarli a crescere e promuovere le loro capacità personali.

7.3. Uscire dal soggettivismo, dalle paure… e dall’eterna adolescenza

L’educazione si basa sulla fiducia: e per questo chiede di essere “persone di fiducia” e “competenti nella relazione di aiuto” o essere riconosciuti e rispettati, degni della fiducia che si è riposta in loro.

Per questo occorre creare le pre-condizioni opportune, la “piattaforma” comunicativa, accogliere e farsi accogliere, saper ascoltare, saper stare al dialogo e alle sue regole, saper accompagnare e camminare insieme, avere il senso del limite; senza pretendere che sin dall’inizio e sempre i ragazzi e le ragazze siano “bravini”, “educati” o siano “a nostra immagine e somiglianza”: certo non per fissarli in questo momento iniziale ma per educare loro e la loro “domanda” (cioè aiutando a esplicitarla, farla crescere, portarla alla sua forma più grande e più bella).

L’educazione implica un “decidersi per…”, un pigliar posizione sulla vita propria e altrui. Oggi, non meno che ieri è difficile essere responsabili, dare continuità alla vita e alla azione, fedeltà alle relazioni, alle idee, ai propositi, agli impegni presi, ai riferimenti ideali e di fede.

In tal senso educare chiede di andare un po’ contro certa mentalità corrente. Io vorrei evidenziare tre punti di attenzione e di superamento.

1) Per essere educatori, oggi, occorre superare il soggettivismo ideale e valoriale: l’io visto centro di tutto e regola di verità e di valore, che spesso si riduce a scambiare la verità con quel che uno pensa, e il bene con ciò che a uno piace. La realtà e la sua verità, così come la trascendenza degli altri, del mondo e di Dio, viene messa a rischio. Il fine, il bene comune (ma anche il rispetto dei tempo e delle cose, il senso della misura dell’intervento tecnico), per cui impegnarsi e dare il proprio contributo di impegno partecipativo, collaborativo e solidale rischiano di essere messi sullo sfondo o oscurati del tutto.

L’altro, qualsiasi forma di alterità (noi stessi, le persone, la società, le istituzioni, gli oggetti, le cose, il tempo, la cultura, la tecnica, i valori, Dio) rischiano di essere ridotti a espressione del me, a destinatario, a oggetto, a utente, a mezzo, a strumento, a desiderio possessivo, a oggetto di consumo da “prendere consumare e buttar via” da parte dell’io. L’autorealizzazione diventa senza limite e freno, quasi una religione dell’io, che rischia di far cadere nella malattia mortale del “narcisismo” di un io senza mondo, senza tempo, senza altri, senza vita (o di finire in altre forme di depressione bulimiche o anoressiche o depressive o aggressive).

2) È anche da superare una certa idea e pratica della relazione ridotta – come è spesso – solo alla sua dimensione empirica, pubblica, “corretta”, “orizzontale” dimenticando o trascurando o lasciando al “privato” la dimensione dell’interiorità e della diversità personale, così come la dimensione “verticale”, quella della profondità e della verità di ciò che è nel mondo e nell’orizzonte trascendente della relazione; oppure ristretta alla sola dimensione interpersonale di io-tu, non aperta al noi personale, istituzionale e culturale.

3) È, infine, da superare e vincere e non lasciarsi irretire dall’ideologia della adolescenza e della “giovinezza perenne” (che si lascia andare alla spontaneità senza limite, all’avventura, al come viene, da eterni bambini e da Peter Pan incalliti che non crescono). Tale ideologia è deleteria per sé (perché impedisce di vivere e godere il bello di ogni età della vita) e per la crescita dei giovani (che non vengono ad avere modelli di vita adulta signifiativa nei genitori, negli educatori, nelle persone con cui sono in rapporto, con rischio di fughe nel “virtuale”, e di fissazione su “star” o di una vita “bambinesca”… come quella che gli adulti ricercano a ogni costo).

7.4. Volare alto

Nella Lettera a una professoressa, i ragazzi di Barbiana ricordano che nella loro scuola avevano imparato a affrontare i problemi e aiutarsi a vicenda per risolverli. “Coi vostri ragazzi fate meno. Non gli chiedete nulla. Li invitate solo a farsi strada”[21].

Dicono che Baden Powell, da quell’educatore inglese pratico e pragmatico che era, richiedesse agli scout di “lasciare il mondo un po’ meglio di come lo si è trovato”.

A scuola in famiglia, ma anche nelle parrocchie e nei gruppi, è tempo di volare alto. Intendo dire che occorre porsi nella prospettiva:

1) di una pedagogia della risposta/mediazione ai bisogni di crescita dei ragazzi, ma anche della proposta/stimolazione, valida e significativa;

2) di una pedagogia dello sviluppo personale, ma meglio di una pedagogia del fine da raggiungere vale a dire persone coscienti, libere, responsabili, solidali in genere e in particolare a scuola nell’apprendere e nel diventare capaci di fare cultura, oltre che fruirla e acquisirla;

3) di una pedagogia del servizio dei ragazzi/ragazze, giovani, ma anche di una pedagogia per il servizio: vale a dire pedagogia della stimolazione, del suscitamento, della vocazione/missione, che aiuta a conoscere i talenti, propri e comuni, e le risorse dei diversi contesti di riferimento, e che spinge alla partecipazione e al servizio, all’aiuto reciproco, alla cooperazione, in vista di una società dal volto umano, di uno sviluppo storicamente sostenibile per tutti e ognuno, di una “civiltà dell’amore” o, evangelicamente, in vista della salvezza del mondo, camminando verso il Regno di Dio, in cui abiterà definitivamente e completamente giustizia e verità!).

7.5. Formarsi a una vita che profuma di Vangelo

Ma oggi più che ieri, in un contesto che ha fatto parlare dell’esigenza di una “nuova evangelizzazione” e che – nel confronto/dialogo interculturale e interreligoso in cui veniamo quotidianamente a trovarci a tutti i livelli e età dell’esistenza individuale e comunitaria – richiede di prender coscienza e testimoniare la “differenza cristiana”, la scelta educativa esige – a mio parere – che come educatori, genitori, insegnanti, formatori, si faccia più preciso riferimento ad una ispirazione cristiana non solo a parole o ideologicamente[22].

Occorre veramente che la fede cristiana diventi il cuore di una profonda spiritualità dell’educare, perché da sempre, e oggi più che mai, l’educazione si gioca soprattutto sulla testimonianza personale e comunitaria. Essa passa o non passa se c’è o non c’è questo fondamentale “canale comunicativo” testimoniante.

Anche a livello di educazione oratoriana, oggi più che in passato, viene ad essere importante un’intelligenza spirituale creativa e soprattutto a realizzare “una vita che profuma di Vangelo”, radicandosi nell’essenziale, in Cristo.

Conclusione

Gesualdo Nosegno, il fondatore carismatico dell’Uciim (= l’Unione Cattolica Italiana Insegnanti Medi) diceva: “educatore: se tu rallenti essi si perderanno, se ti scoraggi essi si fiaccheranno, se ti siedi essi si coricheranno, se tu dubiti essi si disperderanno, se tu vai innanzi essi ti supereranno, se tu doni la tua mano, essi doneranno la vita, se tu preghi essi saranno santi.

Che tu sia sempre l’educatore che non rallenta, che non si scoraggia, che non dubita, ma va innanzi, dona la mano, prega”.

[1] Cfr. C. Nanni, Il sistema preventivo di Don Bosco.Prove di rilettura per l’oggi, Leumann (To), Elledici, 2003, pp. 77 -85 ( “L’oratorio. Scenari del terzo millennio”).
[2] J. Delors, Nell’educazione un tesoro, trad. it., Roma, Armando, 1997.
[3] J. Vecchi, Pastorale e sport in “Note di Pastorale Giovanile”, XXX (1996), pp. 26 – 36 (la citazione di don Bosco è a p. 32)
[4] J. Rumney – J. Maier, Sociologia. La scienza della società, trad. it. , Bologna, Il Mulino, 1955, p. 168.
[5] M. Eliade, Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino, p. 57
[6] B. Pascal, Pensés, n. 171.
[7]Cfr. P. Viotto, Tempo libero, in Enciclopedia Pedagogica, vol. VI, Brescia, La Scuola , 1994, 1171-1175.
[8] A. Simonicca, Antropologia del turismo, Roma, Carocci, 2001.
[9] Cfr. D. Canestrini, Andare a quel paese. Vademecum del turista responsabile, Milano, Feltrinelli, 2003.
[10] M. Acanfora et al., Turisti responsabili .La guida ai viaggi di turismo responsabile, all’accoglienza di comunità locali e agli agriturismi solidali, Piacenza, Berti, 2003.
[11] Cfr. J. Vecchi, TGS: quale turismo?, in CIOFS-CNOS, Insieme ai giovani, Roma, [Tip. Don Bosco], 1997, pp. 89- 102, ma specie pp. 95-97.
[12] J. Huizinga, Homo ludens, trad. it., Torino, Einaudi, 1946.
[13] H. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, trad. it.,Milano, Il Saggiatore, 1967; H. M. McLuhan – B.R. Powers, Il villaggio globale – XXI secolo: trasformazione nella vita e nei media, trad. it. Milano, Sugarcoedizioni, 1989)
[14] Cfr. S. Pivato, L’era dello sport, Firenze, Giunti-Casterman, 1994.
[15] E. Bardulla, Sport, turismo e mass-media: le risorse dell’educazione informale, in G. Angelini et Al., Educare nella società complessa, Brescia, La Scuola, 1992, pp. 183 – 211.
[16] Sui rapporti sport ed educazione si veda A. Kaiser, Genius Ludi: il gioco nella formazione umana, Roma, Armando, 1995; A. Kaiser (a cura di), Gioco e sport nelle scienze dell’educazione, Genova, Sagep Editrice, 1996; A. Kaiser, Antropologia pedagogica della ludicità, Brescia, La Scuola, 1996.
[17] C. Nanni, Agonismo sportivo e educazione alla convivenza civile e democratica, in “Orientamenti Pedagogici”, XLII (1995), 1, pp. 11-24.
[18] Cfr. Ufficio Nazionale della CEI per la Pastorale del tempo libero, turismo e sport, Parrocchia e pastorale del turismo, dello sport, del pellegrinaggio. Sussidio pastorale, Milano, Paoline, 2004.
[19] M. Pollo, L’animazione attraverso il gioco e lo sport, in “Animazione sociale”, XXVII (1997), maggio, pp. 64- 71
[20] Ho sviluppato questa metafora in C. Nanni, Lettere spirituali a insegnanti e formatori, Roma, IFREP, 2005, pp. 91-96.
[21] Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina p. 14.
[22] Per una visione cristiana dello sport e il contributo ecclesiale a riguardo, si può leggere proficuamente: CEI, Sport e vita cristiana, Roma, Centro Sportivo Italiano, 2005.

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