Non chiamatelo sport

Venerdì 2 febbraio è stato ucciso l’ispettore di polizia Filippo Raciti, 38 anni, in servizio allo stadio in cui veniva giocato il derby Palermo-Catania. La partita era iniziata con un minuto di silenzio in memoria di Ermanno Licursi, morto 5 giorni prima nel tentativo di sedare una rissa a Cosenza. La domenica successiva, nelle radio e nelle tv, dentro i programmi solitamente dedicati al resoconto delle partite, si sono spese milioni di parole a condannare, cercare le cause, i colpevoli, i perché, mentre venivano arrestate oltre 30 persone tra cui anche dei minori. Ma Gianni Mura, su Repubblica di domenica scriveva così:

Proviamo a chiudere gli occhi e a pensare che Filippo Raciti non sia morto, ma solo ferito. Non si sarebbe fermato il calcio, staremmo a discutere dei risultati di ieri, di Inter e Roma che giocano stasera, e poi della Nazionale con la Romania.

La situazione era già grave, ma a molti tornava comodo far finta di niente, una strategia quasi sempre pagante in questo paese. È dunque la differenza, atroce ma casuale, tra un ferito e un morto a rendere urgente un risanamento, non tanto degli stadi, ma di chi li frequenta per giocare alla guerra. Questo blocco è giusto ma tardivo. Secondo me non è giusto, alla lunga, per tifosi dell’Empoli, dell’Udinese, del Chievo, per tutti quelli che dalla curva non hanno mai lanciato neanche una palla di carta. La brava gente capirà, siamo in emergenza.(…)

Già, deve morire un uomo, perché ci si renda conto che sono stati superati tutti i limiti possibili. Quando la rivista sarà stampata potrebbe addirittura essere che non ci si ricordi nemmeno più il suo nome, Filippo Raciti. La gente ora è indignata e le lettere dei lettori su tutti i giornali gridano indignazione e vergogna:

Non riesco ancora a credere che sia tutto così reale. Mi hanno tolto una parte della mia vita. Il Calcio, quello con la C maiuscola, quello giocato. Hanno tolto un papà a due bambini e un marito ad una donna. Il motivo non esiste. Non ho mai visto di buon occhio le forza dell’ordine dai fatti del G8 in poi, ma adesso non riesco a vedere di buon occhio nemmeno me stesso. Ero orgoglioso di essere un italiano, lo sono sempre stato e lo sono stato di più quando vidi gli azzurri alzare al cielo la Coppa del Mondo. Ora l’orgoglio non esiste più, provo solo tanta amarezza e vergogna. N. S.

Carissimi, sono un cittadino di Catania, marito e fra alcuni mesi padre. Pensavo di trascorrere un periodo bellissimo della mia vita, giorni speciali, pensando al bambino che nascerà, agli amici che ho, alla festa di S. Agata ormai imminente… al Catania in serie A. E invece hanno rovinato tutto! Hanno rovinato una vita, una famiglia, una città! E la città si riempirà per la festa di S. Agata! Come sempre sarò lì anch’io. A compiere un cammino lungo tre giorni per chiedere perdono, per continuare a sperare, per far trovare a mio figlio una città migliore! P. R.

D’improvviso ho attraversato 35 anni della mia vita rivedendomi all’età di 10 anni all’ingresso dello stadio accanto a mio nonno, quando per entrare bastava solo il biglietto. Mi sono rivisto, a 20 anni, barricato all’interno di uno spogliatoio insieme con i miei compagni di squadra assediato dai tifosi avversari. E mi sono rivisto oggi, lontano dagli stadi non solo come atleta ma anche come tifoso. Credo sia necessario dare la giusta dimensione al calcio. E per farlo non basta un solo minuto all’inizio della gara. Non bisogna piangere il morto allo stadio. Bisogna evitare che il vivo lo diventi! A. C.

Il limite è stato superato di misura e se, neppure a questo punto, si prendono provvedimenti seri, significativi, se neppure a questo punto si decide di far osservare rigorosamente le leggi, se neppure a questo punto si ferma tutto seriamente, significa veramente che non solo il calcio è malato, ma il tessuto sociale intero è irrecuperabile.

Come educatori, come cristiani, convinti della possibilità di educare anche attraverso lo sport, ci sentiamo sconfitti, scoraggiati e amareggiati, ben sapendo che dietro questi tragici fatti ci sono interessi e fattori che vanno oltre il semplice tifo o il semplice sport; e anche i minori coinvolti in questo assurdo agguato omicida sono vittime di adulti che manovrano la cose dall’alto, ben attenti a restare impuniti.

Nello stesso tempo però è urgente non dimenticare che la prevenzione deve nascere nei campetti di oratorio, nei tornei promozionali, nelle partite dei bambini accompagnati dai loro genitori e tante volte «rovinati» dai loro genitori. Il bel gioco non si improvvisa, ma neppure il cattivo gioco si improvvisa, né si improvvisa il cattivo tifo.

Le associazioni di promozione sportiva si sono infatti espresse con un’attenzione educativa che non viene meno neppure in questi momenti:

Il Centro Sportivo Italiano, a nome di tutti i suoi associati, esprime profondo dolore per la tragica morte dell’Ispettore di P.S. Filippo Raciti, che segue di pochi giorni quella altrettanto assurda del dirigente calcistico Ermanno Licursi in Calabria, porgendo ai familiari delle due vittime la propria solidarietà. La nostra convinzione è che la violenza nello sport si debba contrastare anzitutto con un assiduo impegno educativo tra gli adolescenti e i giovani. Riteniamo che tale impegno non possa essere solo «proclamato» a parole, ma vada «testimoniato» quotidianamente sui campi da gioco, tanto più nelle attuali circostanze.

Le Polisportive Giovanili Salesiane condannano con vergogna la violenza che ha ucciso ieri Filippo Raciti e la scorsa settimana Ermanno Licursi. Come Associazione di Promozione Sportiva ci dissociamo da questo modo di intendere e pensare lo sport. Non interrompiamo le nostre gare di tutte le discipline sportive ma ci incontreremo per dimostrare come si gioca e si tifa per i propri colori. Prima delle gare ci raccoglieremo in silenzio a pregare Dio per Filippo, Ermanno e le loro famiglie, e ci impegneremo a testimoniare in campo e sugli spalti che un altro sport è possibile.

Un altro sport è possibile? Vogliamo credere che lo è. Ma è urgente, indispensabile, necessario che ognuno faccia la propria parte: innanzitutto le società di calcio, che hanno in mano il controllo degli ultras, devono avere più coraggio e meno avidità. Poi i giocatori: non dimentichino che in campo essi sono dei modelli: dovrebbero esserlo anche in legalità e correttezza. Poi i mass media: le trasmissioni urlate, le perdite di controllo, le volgarità gratuite sono germi di violenza che rischiano di degenerare. Poi i tifosi: riscoprano il valore della festa che ormai è completamente cancellato dagli stadi italiani. Infine i genitori, gli educatori, gli allenatori: rimettano al centro l’educare anche e soprattutto attraverso il fare sport, altrimenti, in questo modo non si può neppure più chiamare sport.

Manuela Robazza
Tratto da Note di Pastorale Giovanile, marzo 2007

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