Metti in moto la fraternità

La fraternità, un’idea universale

Lo spunto per una proposta innovativa e concreta da offrire al mondo dello sport può venire dal brano di un messaggio di Chiara Lubich indirizzato ad un convegno in Sud America, un brano di forte sapore profetico ma, al contempo, di indiscutibile concretezza: «Le forti contraddizioni che segnano la nostra epoca necessitano di un punto di orientamento altrettanto penetrante ed incisivo, di categorie di pensiero e di azione capaci di coinvolgere ogni singola persona, così come i popoli con i loro ordinamenti economici, sociali e politici. C’è un’idea universale, che è già un’esperienza in atto, e che si sta rivelando in grado di reggere il peso di questa sfida epocale: la fraternità universale.»

Che senso ha proporre la fraternità universale come categoria di pensiero e di azione, come modello di riferimento per la cultura, e, nel nostro caso, per la cultura sportiva?

La parola fraternità suscita certamente in noi reazioni molto diverse. Positive nel contesto dei rapporti familiari; all’insegna della perplessità, se si parla della fraternità nell’ambito pubblico; di diffidenza in altri ambiti come quello, ad esempio, del complesso mondo dell’economia.

Ed accostata allo sport? Espressioni come dialogo, amicizia, pace, fratellanza sono da sempre presenti nella cultura dello sport, auspicate quale frutto della pratica sportiva stessa. Allo sport viene attribuita, citiamo, la capacità di sviluppare le relazioni sociali, di essere fattore di comprensione internazionale e strumento di pace, di essere “componente essenziale della nostra società”, capace di trasmettere “tutte le regole fondamentali della vita sociale” e portatore di valori educativi fondamentali quali “tolleranza, spirito di squadra, lealtà”. Kofi Annan, allora Segretario Generale delle Nazioni Unite, nel tracciare un bilancio dell’Anno Internazionale dello Sport e dell’Educazione Fisica, promosso dall’ONU nel 2005, affermava: “Lo sport deve diventare uno strumento essenziale per raggiungere gli obiettivi di sviluppo del mondo”. Più recentemente il suo successore, il coreano Ban Ki-Moon ha ribadito: “Attraverso lo sport possiamo promuovere la pace, il dialogo e la riconciliazione”.

Eppure oggi dobbiamo ammettere che lo sport, soprattutto quello competitivo e di prestazione, ma non solo quello, è minacciato dall’agonismo esasperato, dal doping, dalla violenza, dal razzismo, dalla commercializzazione e dalla spettacolarizzazione. Su quali basi dunque può proclamare di essere strumento di incontro, di amicizia, di pace, di fratellanza?

Il valore del fair play

Parlare di fraternità in ambito sportivo evoca certamente anzitutto un concetto unanimemente riconosciuto e diffuso nel mondo dello sport: il fair play. Esso racchiude in sé il senso della virtù ricercata nello sport.

Tuttavia pare oggi evidente che al crescere del prestigio della competizione, cresca quella che è stata definita subcultura della performance: in essa l’aspetto della prestazione è enfatizzato al massimo grado e lo stile di vita che vi è associato è caratterizzato dalla ricerca di sempre nuovi record e dal superamento di ogni limite. Gli “eroi”, gli sportivi modello, dimostrano, in più di qualche circostanza, che quel che conta non è la competizione in sé, ma piuttosto il risultato finale (vincere ad ogni costo), ed il vantaggio personale. A questo modello, tipico dello sport orientato al risultato (olimpico, professionistico, spettacolare), si va ormai uniformando anche lo sport amatoriale, dilettantistico, e quello giovanile. Posto che le regole delle diverse discipline e le abilità e l’addestramento propri di ciascuna consentono il confronto agonistico, lo sport si è dato, con il fair – play, un proprio codice morale di comportamento. Cerca, in sostanza, di mitigare, attraverso il fair- play, i toni più esasperati della crescente carica agonistica. Oggi, il fair-play, data la facilità con la quale viene disatteso, si sta dimostrando strumento debole ed insufficiente per ridare allo sport quello spessore di credibilità di cui oggi ha bisogno.

Non solo: ripetute esperienze, anche recenti, dimostrano che il fair play difficilmente si può imporre. La proposta, nel calcio, del cosiddetto “terzo tempo”, la stretta di mano obbligatoria a fine partita, fatica ad essere accettata. I comportamenti morali, pur connaturali alla persona umana, vanno coltivati, vanno allenati, vanno maturati nella consapevolezza del valore della persona umana e del proprio agire quotidiano, e non solo quello sportivo.

Essi sono l’espressione di una cultura (lo dimostrano il rugby e gli sport di combattimento) che va interiorizzata nel tempo, perché toccano da vicino il carattere, la formazione, i valori di riferimento, l’ambiente in cui vivono le persone. E solo nella libertà che viene dal saper conoscere e compiere il bene possono essere messi in atto.

Lo sport è in questo senso una palestra straordinaria, un luogo di verifica e di sperimentazione. Ed è anche un luogo di speranza: lo dimostra il fatto che, nonostante sempre nuove minacce, nello sport si continuano ad osservare, quotidianamente, episodi di fair–play e testimonianze di adesione sincera ai valori più autentici.

Le radici di una proposta

Per questo proprio nello sport pensiamo che la proposta di mettere in moto la fraternità sia la proposta vincente, quella che riesce a rispondere alle domande più profonde. Quali sono gli interrogativi di oggi, comuni anche al mondo dello sport?

Se guardiamo con attenzione alle grandi domande dell’umanità è possibile scorgere, alla loro radice, un elemento che le accomuna tutte: la mancanza di comunione tra gli uomini, che diventa difficoltà di convivenza interpersonale, sociale e politica, ovvero la difficoltà crescente, anche nello sport, di riuscire a coniugare, anche nella pratica sportiva, il sano desiderio di crescita e di affermazione della propria persona con la positiva dinamica relazionale.

Al cuore di questa mancanza di comunione fra gli uomini c’è, potremo dire, una oscurità, una notte particolare che avvolge ogni scelta. E’ quella che un filosofo francese, Paul Ricoeur, ha genialmente definito la “notte del noi”. C’è l’incapacità di pensarci come parte, unica sì, diversa sì, ma, comunque e sempre, parte di un disegno comune. Al massimo l’espressione noi ci serve per designare i rapporti dentro il nostro piccolo gruppo e anche lì, facilmente, in situazioni di difficoltà, questa dimensione sfuma di fronte alla necessità di una nostra solitaria centralità.

Cosa può venire dalla spiritualità dell’unità, alla quale i membri della rete di Sportmeet attingono? Essa ci si manifesta sempre più non solo come qualcosa che ha cambiato la nostra vita, dandoci una prospettiva di realizzazione personale e comunitaria: oggi questo stile di vita si sta dimostrando sempre più capace di elaborare un pensiero che si pone in dialogo autorevole con la cultura contemporanea, cercando di offrire risposte compiute alle domande di spiritualità, di cultura, di economia nuova, di politica nuova, di sport…

Una cultura che nasce dalla vita

Ma su cosa si fonda questa apertura di dialogo?

La prima cosa che produce in noi la spiritualità dell’unità vissuta è di trasformarci in uomini e donne che insieme si riscoprono soggetti – e non oggetti – dentro le situazioni della propria storia personale e collettiva e cercano di tradurre questo stile di vita in atti efficaci.

La seconda cosa, il passo che vogliamo fare oggi e che vogliamo fare insieme a tutti voi, è quello di renderci conto del potenziale sociale contenuto in tante nostre piccole e grandi esperienze scaturite da queste nostre scelte iniziali: è giunto il momento di passare dalle buone pratiche (in inglese good practises), di cui molte volte siamo specialisti, o quantomeno capaci, al saper distillare dalla vita una specifica elaborazione culturale per dare fino in fondo il nostro contributo alla società.

Per questo vogliamo che questo convegno sia un laboratorio internazionale di testimonianza e di lavoro culturale comune sullo sport, tra sportivi, dirigenti, istruttori, insegnanti, studiosi, addetti ai lavori o semplici appassionati di vari livelli, di ispirazioni e fedi diverse, affascinati dall’idea di mettere la fraternità a base della propria esperienza umana e sportiva e di contagiare altri con questo progetto. Come?

Chiara Lubich ci ha insegnato ad avvicinarci ad ogni persona, a qualunque livello, che incontriamo a tu per tu o che semplicemente conosciamo attraverso i media, con la convinzione che ciascuno ha un ruolo insostituibile nella costruzione della fratellanza universale. Così facendo facciamo entrare ognuno in una dinamica di dialogo, di amore reciproco, creiamo le condizioni perché ciascuno comprenda quale sia il proprio ruolo insostituibile in questo mosaico.

Qualcuno, forse anche tra noi, pensa che gli sportivi, gli atleti professionisti o i dirigenti, soprattutto di un certo livello, siano una categoria impermeabile ad ogni novità… Chiara ci ha instillato la stima profonda per ciascuno, ci ha insegnato a vedere in ogni persona una figura che ha un disegno grande, che ha un’anima ricca e una grande capacità di amare, quella che un giorno lo ha spinto, nel nostro caso, a percorrere la strada dello sport come via privilegiata e gioiosa per realizzare se stesso e gli altri. E su questa visione vogliamo puntare.

In questo progetto siamo chiamati a costruire una storia di fraternità che veda tutti protagonisti: non solo con le singole persone, ma anche con le associazioni e le istituzioni sportive, i media ed i finanziatori dello sport, le agenzie formative e le realtà accademiche, dentro la nostra città, il nostro paese, le nostre comunità.

La fraternità nello sport come metodo, contenuto e fine

Se la fraternità è patrimonio dell’umanità, iscritto nel DNA di ogni uomo, lo sport sembra davvero possedere risorse importanti al fine di comporre in ordine alla fraternità la convivenza degli uomini. Rifacciamoci al trittico della rivoluzione francese, applicandolo allo sport: se libertà e uguaglianza qualificano il rapporto tra gli sportivi – la libertà ispira l’espressione del proprio talento sportivo e l’uguaglianza detta le condizioni per un confronto aperto e costruttivo -, la fraternità è fondamento e meta della stessa relazione sociale tra le persone.

Vogliamo immaginare la fraternità non come qualcosa che si aggiunga alla sport dall’esterno, ma come qualcosa che ne ispiri direttamente metodi, contenuti e fini, e porti conseguenze concrete nella progettazione e nello svolgersi quotidiano dell’attività sportiva. Quelle che indicheremo vogliono solo essere delle prime linee di elaborazione culturale ed esperienziale.

a) La fraternità come metodo

La fraternità come metodo, vissuta nello sport, non è semplice formale rispetto delle regole e dell’avversario: è familiarizzazione con l’altro, è condivisione fino alla reciprocità, è tensione a tenere insieme e valorizzare esigenze che rischiano, altrimenti, visti gli interessi crescenti, di svilupparsi in conflitti insanabili.

La fraternità in atto può cioè rendere complementari e non antitetiche due coppie di parole chiave che hanno come fine la promozione dello sport: eccellenza ed inclusività; prodotto e processo.

Operare in funzione dell’eccellenza significa permettere a quegli atleti con il maggior potenziale di eccellere, di fare dell’esperienza sportiva l’area di successo personale. Perché questa non risulti l’unica dimensione della pratica sportiva è necessario operare in funzione della inclusività, ovvero permettere a tutti coloro che si avvicinano alla pratica sportiva di raggiungere un livello base di abilità tecniche, di provare piacere nell’impegno e nello sforzo prodotti e di non essere esclusi come meno adatti.

La finalità di chi sostiene il prodotto sarà la ricerca della performance di alto livello. Coloro invece che vedono il principale valore dello sport nel processo, nella pratica, promuoveranno lo sport come un mezzo piuttosto che come un fine e l’esperienza sportiva come un veicolo per raggiungere importanti finalità educative.

Ci si può chiedere se la fraternità possa essere compatibile con lo sport di elite e professionistico: la luce della fraternità aiuta a comprendere che una partita vinta con l’imbroglio, o con un trucco, non è realmente vinta (a qualunque livello si giochi). Lo sport pulito permette a tutti i competitori di dimostrare le proprie capacità e consente al giocatore con le migliori abilità, a quello che si impegna di più e che è più creativo, di vincere. È questa la bellezza dello sport!

Alla luce della fraternità possiamo anche riscoprire il valore educativo della competizione: “uguaglianza di opportunità”, dare cioè a tutti la possibilità di competere, non significa “uguaglianza dei risultati” con la conseguenza di annullare ciò che di educativo e promuovente si ha nella competizione.

La fraternità come metodo riguarda primariamente il piano dei rapporti interpersonali: possiamo solo immaginare gli effetti che potrebbe produrre se applicata anche sul piano dei rapporti fra le diverse organizzazioni sportive, fra queste e le istituzioni internazionali e locali, fra le diverse agenzie educative e quelle sportive, fra realtà sportiva e mondo economico e dei media e così via.

b) La fraternità come contenuto

Ma la fraternità non tocca solo il piano del metodo: va coniugata anche, ed è essenziale, dentro i contenuti della cultura sportiva. Proviamo a scoprirne alcuni possibili percorsi. Se dovessero sembrarvi troppo idealistici, nel pomeriggio e nella serata, quando daremo lo spazio alle testimonianze, capirete che non si tratta di sogni.

Lo sport è oggi strettamente intrecciato all’economia: l’esasperata commercializzazione dello sport rischia di vincolarlo esclusivamente ai suoi interessi. La fraternità è riferimento cardine affinché tale intreccio sia costruttivo e rispettoso dei valori veicolati dallo sport. La fraternità, solo per fare qualche esempio, può incoraggiare ad una distribuzione più equa e solidale delle risorse economiche poste oggi a disposizione del mondo dello sport da sponsor, merchandising e diritti televisivi: una percentuale significativa di tali risorse potrebbe essere indirizzata, nella libertà, alla formazione e all’avviamento allo sport delle generazioni più giovani. La proposta della stesura, da parte delle società sportive, di un bilancio sociale è uno strumento straordinario per affermare un concetto di impresa, di soggetto economico, che, perseguendo il proprio interesse prevalente, contribuisce a migliorare la qualità della vita dei membri della società in cui è inserito. Potrebbe nascere, come conseguenza, il sostegno a progetti sportivi a valenza sociale, locali o in paesi in via di sviluppo, promuovendo, ad esempio, progetti di adozione a distanza di società sportive nei confronti di altre società sportive con minori risorse. Non va dimenticata, in sintesi, la necessità di garantire allo sport la sua ineludibile connotazione ludica: promuoverne la dimensione di gratuità significa aiutare l’uomo, anche lo sportivo, a liberarsi dalla morsa dell’utilitarismo, dall’attaccamento idolatrico al successo, e, oltre tutto, a dispiegare le esigenze dello spirito. Emblematico di un nuovo agire economico anche nello sport potrebbe divenire l’esempio storico di Fidippide che corse da Maratona ad Atene, perdendo la vita non per difendere un interesse, ma solo per la gioia di annunciare una vittoria.

L’attività sportiva, specie quella olimpica, intende proporsi come autorevole risorsa per la costruzione della pace. Lo sport, si afferma, “per la sua universalità si pone sul piano internazionale come mezzo di fraternità e di pace”. Tuttavia nessuno si illude che lo sport porti la pace di per se stesso: “La valenza simbolica in favore della pace – viene precisato – non nasce da sola nello sport. Soltanto quando gli sportivi stessi, durante le competizioni, fanno proprio il tema della pace, potranno essere testimoni, nel corso dell’evento sportivo, di come si può essere costruttori di pace. Solo allora saranno credibili”. Se vissuto nella fraternità, citiamo Giovanni Paolo II: “Lo sport può recare un valido e fecondo apporto alla pacifica coesistenza di tutti i popoli, al di là e al di sopra di ogni discriminazione di razza, di lingua e di nazioni.” L’esempio della squadra di calcio dell’Iraq, composta da giocatori di tre gruppi etnici che hanno festeggiato abbracciati la vittoria nella Coppa d’Asia resterà nella memoria.

La fraternità nello sport favorisce l’implemento di ogni forma di marginalizzazione, modula l’intreccio pacifico tra le diversità, dove il desiderio di ritrovare le proprie radici diventa presupposto per un dialogo vero, unico efficace rimedio ad un razzismo che fatica a spegnersi. Tale coscienza sociale dello sport, per essere credibile e fertile, necessita di testimoni: nello sport lo sono tutti, consapevolmente e non, atleti, formatori, dirigenti e genitori. Se lo sport è praticato, anche nel contesto agonistico, come occasione per esaltare la dignità della persona, esso può divenire un veicolo di fraternità e di amicizia anche per tutti coloro che vi assistono.

Nello sport, sconfitta e vittoria sono quotidiani passaggi obbligati. La fraternità in atto può favorire una cultura della sconfitta per una nuova cultura della vittoria, saper perdere per sapere vincere. Più avanti ancora si spinge la proposta di Chiara Lubich, alla luce di una cultura del dare: “Solo dalla donazione, dall’amore nasce la gioia interiore, più limpida, più pura, per chi vince (se ha lottato e vinto per amore) e per chi perde (se ugualmente ha lottato e perso per amore). Allora lo sport diventa autentico e sarà elevato alla sua dignità sociale.” Con questi presupposti potremmo pensare di affrontare, con speranza di vittoria, battaglie importanti come quella contro il doping o ogni altra forma di frode presente nello sport. Ci vengono a sostegno numerosi episodi: citiamo, dal mondo del ciclismo, quello di Marco Pinotti, che, al Giro d’Italia, consapevole della conquista della maglia rosa, ha regalato il successo di tappa al compagno di fuga.

Oggi è diffuso l’imperativo del “no –limits” per il quale l’attività sportiva impone “la sottomissione del corpo al diktat della prestazione, all’imperativo del rendimento e dell’efficacia quantitativamente misurabili”. Questa cultura dell’andare oltre, del trascendere a tutti i costi le possibilità che ci sono date, non nasconde solo un deprezzamento del corpo inteso solo come materia da padroneggiare secondo una logica di strumentalizzazione utilitaristica; nasconde anche l’incapacità di sapersi accettare, ossia di essere quello che si può essere. Orientando il mantenimento della salute, favorito dallo sport, ai contenuti della fraternità, può crescere l’attenzione verso una salute integrata, uno star bene con se stessi, con gli altri, con l’ambiente, in linea con una più estesa salute sociale.

Grazie ad uno spirito di fraternità, al pari dell’ambiente naturale, anche ogni spazio o impianto sportivo dovrebbe essere accogliente, armonioso, ispirato a canoni di bellezza universali, capace di favorire in ciascun praticante la consapevolezza di essere parte della natura stessa, l’espressione dei propri talenti e la conoscenza dei propri limiti. Senza dimenticare che l’ambiente migliore è comunque quello in cui è vivo un clima di fiducia e di rispetto reciproco. Il gesto sportivo stesso è spesso di bellezza incomparabile: la valorizzazione di esso è fondamentale per rilanciare lo sport non soltanto in termini morali, ma altresì estetici. L’arte arricchisce lo sport di creatività; lo sport offre all’arte la competenza di sapersi applicare alla realtà.

Lo sport ha valenza insostituibile nel percorso educativo. Educare allo sport non significa, automaticamente, educare ai valori: “i valori vengono interiorizzati se vissuti”, da educatori ed allievi. Nella logica della fraternità, sono da aiutare a formarsi e ad avere intenzionalità educativa tutti coloro che a vario titolo sono i protagonisti dello sport (sportivi, allenatori, accompagnatori, dirigenti, organizzatori, tifosi, amministratori, politici, genitori). Lo sport per tutti non significa che tutti possono fare le stesse cose, ma significa fare sport ciascuno secondo la propria misura, cercando il proprio passo e la propria velocità anche dentro la folla. “Lo sport – affermava Chiara Lubich nel suo messaggio al congresso di Sportmeet nel 2004 – può rivelare la dimensione essenziale dell’uomo sia come essere finito, di fronte a difficoltà e sconfitte, sia come essere chiamato all’infinito, capace di superare i propri limiti.”. Una pedagogia sportiva illuminata dalla fraternità pone l’obiettivo sullo sviluppo della persona umana e non solo sullo sviluppo delle specifiche qualità motorie.

L’intreccio fra sport e comunicazione si è dimostrato reciprocamente vantaggioso, ma la fraternità è chiave di volta affinché la spettacolarizzazione esasperata non faccia svanire il valore della pratica sportiva in sé. L’ipertrofia di comunicazione relativa allo sport di prestazione penalizza e svia la pratica della grande maggioranza degli sportivi. La fraternità aiuterà a trovare un equilibrio, qualitativo e quantitativo, tra gli spazi mediatici offerti allo sport agonistico, a quello amatoriale, a quello educativo, superando, ad esempio, la tentazione del monoalimento calcistico.

Alla politica ed alle istituzioni di governo sportivo, se anch’esse ispirate dalla fraternità, andrà il compito di favorire universalmente il diritto al gioco ed allo sport, di garantire, per i diversi aspetti, che le normative e le risorse economiche siano guidate in modo efficace da intenzionalità educativa. A Lisbona il consiglio d’Europa ha recentemente definito “la specifica natura dello sport, le sue strutture basate sull’attività volontaria e la sua funzione sociale ed educativa”. Le istituzioni avranno una parte importante nell’incentivare la pratica motoria e nel promuovere con ogni mezzo stili di vita attivi. La fraternità aiuterà a comprendere come ogni singola comunità locale possa rispondere alla esigenza di integrare gioco e sport.

c) La fraternità come fine

Per quanto riguarda i fini dello sport, la fraternità conferisce ad esso la necessaria umiltà, ponendone il fine come estrinseco a se stesso. Uno sport orientato alla fraternità ha come fine quello di contribuire efficacemente, accanto ad altre realtà, alla crescita integrale ed armoniosa della persona umana, alla realizzazione del disegno sull’umanità, alla costruzione dell’unità della famiglia umana.

Le parole usate a riguardo da Giovanni Paolo II indicano con chiarezza quali siano i fini dello sport alla luce della fraternità: “Lo sport risponda, senza snaturarsi, alle esigenze dei nostri tempi: uno sport che tuteli i deboli e non escluda nessuno, che liberi i giovani dalle insidie dell’apatia e dell’indifferenza, e susciti in loro un sano agonismo; uno sport che sia fattore di emancipazione dei Paesi più poveri ed aiuto a cancellare l’intolleranza e a costruire un mondo più fraterno e solidale; uno sport che contribuisca a far amare la vita, educhi al sacrificio, al rispetto ed alla responsabilità, portando alla piena valorizzazione di ogni persona umana”.

Nei documenti finali dell’Anno Internazionale dello Sport e dell’Educazione Fisica si sostiene che “lo sport è un mezzo che aiuta a formare il carattere e la personalità e prepara i giovani ad affrontare le sfide di un mondo competitivo”. Ed ancora che “il potere dello sport può essere usato come strumento per prevenire i conflitti così come per costruire una pace duratura. L’attività sportiva promuove l’integrazione sociale ed educa alla tolleranza”.

La fraternità nello sport è un progetto che reclama testimoni e che auspica il coinvolgimento delle diverse agenzie culturali dello sport, prima di tutto gli atenei universitari dove questa cultura deve poter crescere. La fraternità li chiama ad entrare in un dialogo fecondo con il mondo dello sport per poter distillare da questo rapporto la capacità di essere centri di irradiazione di una nuova cultura.

La fraternità è un disegno globale, che attiene sia alle singole persone, sia alla convivenza tra popoli, etnie e culture della terra: essa reclama il contributo di tutti, a partire da istituzioni sportive internazionali ispirate alla fraternità universale oltre che pienamente democratiche, continuando con il contributo delle articolazioni locali, fino al contributo personale ed insostituibile di ciascun operatore sportivo come istruttore, dirigente, insegnante, genitore. La bellezza intrinseca dell’attività sportiva è affascinante, affidabile ed esigente campo di sperimentazione della reale capacità e volontà di contribuire, con la cultura e con la vita, allo sviluppo integrale della persona umana ed alla costruzione della fraternità.

Paolo Crepaz
Tratto da “Congresso Internazionale: SportInCredibile”, 28-30 marzo 2008

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