Pastorale e sport

Don Juan Vecchi, 1983
Consigliere mondiale per la pastorale giovanile salesiana

Il tema che mi è stato proposto di svolgere, è: «Pastorale e sport». Io l’ho articolato un po’ di più, inserendo due nuovi termini che facilitano, anzi svelano immediatamente l’impostazione e lo sviluppo: Salesiani-Giovani-Sport-Pastorale. L’ordine di questi fattori potrebbe essere diverso: comunque non cambierebbe il risultato.

Quando formiamo il binomio «pastorale-sport» o «educazione-sport», vogliamo dire, in un’espressione condensata che senza togliere al gioco le sue caratteristiche di divertimento, sforzo ed eventualmente spettacolo, mettiamo tutto il fenomeno in rapporto con la crescita totale della persona o, se parliamo di pastorale, con la maturazione della fede e l’inserimento nella Chiesa.

Di fronte alla sola siffatta enunciazione del problema possono sorgere nella nostra mente immagini di incompatibilità o contrapposizioni, di estraneità (il gioco ha niente a che vedere con la fede!), di giustapposizioni e di strumentalizzazione (col gioco vengono attirati coloro ai quali si può offrire il catechismo).

Il termine «giovane» colloca le cose su un terreno concreto. Non si tratta dello sport considerato in se stesso o nel contesto della società, ma nell’esperienza giovanile. Il termine «salesiano» ci orienta verso un tipo originale di mediazione pastorale.

Cerchiamo di procedere attraverso il tema in tre tempi raccogliendo le riflessioni più scontate e condivise e, dunque, più ricche di conseguenze.

Primo tempo: FACCIAMO MEMORIA

Un legame che viene da lontano

Quando mi trovo di fronte alla sigla «Polisportive Giovanili Salesiane», la prima reazione è chiedermi: Come mai sono sorte polisportive che portano l’appellativo di «salesiane»? Esistono forse polisportive giovanili gesuite, francescane, domenicane o certosine? Capite? «Salesiana» come la nostra università, come la casa generalizia, come l’archivio generale… come le scuole!

C’è un legame antico e naturale, ma anche coscientemente voluto e sovente riaffermato tra i salesiani e il gioco; un legame che non è semplicemente conseguenza del loro trovarsi tra i giovani, ma scaturisce dalla loro «originale» presenza tra di essi. È difficile pensare i salesiani o Don Bosco e non immaginarli partecipando al gioco dei ragazzi. Ne danno fede non poche immagini dove lo stesso Don Bosco, o l’accenno simbolico alla sua Congregazione, viene rappresentato in mezzo ad un cortile pieno di ragazzi che scorrazzano.

È questa una particolarità singolare di Don Bosco. Un autore ha scritto un libro dal titolo «Don Bosco che ride»; l’avrebbero potuto intitolare anche «Don Bosco che gioca», perché un aspetto originale della sua vita è proprio l’intuizione della forza comunicativa del gioco, intuizione che lo spinse a cercare ed incontrare i ragazzi nel gioco, partecipandovi egli stesso. È un taglio originale e quasi unico per una biografia che ha il suo riscontro forse soltanto in quella di Filippo il buono. Potrebbe far pensare ad un’astuzia dei suoi figli per rendere simpatica e popolare la figura di Don Bosco. Una serie di fatti reali, invece, ci dicono che non si tratta di un «espediente».

Spontaneità e maturazione

La prima cosa che rileviamo nella vita di Giovannino Bosco è una capacità spontanea di godere e allo stesso tempo di esprimersi attraverso il gioco, a tal punto da farlo coesistere e fonderlo con impegni seri, senza che nessuna di queste componenti perdesse i suoi connotati. Le cose serie sono trattate in forma festiva e il gioco impegna nella sua dinamica sentimenti, attitudini e piani.

È questa una caratteristica naturale di Don Bosco. Il suo biografo la tratteggia in una frase riassuntiva: «Giovanni era l’anima del divertimento». L’immagine che di lui ci viene trasmessa non è di un ragazzo che guarda con tristezza i trastulli e si trova a suo agio soltanto tra libri e preghiere, ma di uno che entra con spontaneità ed entusiasmo nel gioco e si scatena in esso.

Questa tendenza la si nota anche in un altro tratto: Giovanni era sempre protagonista nel gioco e ricorderà nelle sue memorie con fruizione il suo protagonismo. Si tratta di un ripensamento di fede, in cui scorge come il Signore lo preparò per l’apostolato giovanile; ma è anche una semplice reminiscenza delle sue affermazioni in quell’ambiente contadino: le «letture» e i «racconti invernali» nella stalla, i giochi di prestigio nel prato, le scampagnate da amico col fratello Giuseppe… comunque sempre l’utile e il valido fusi alla gioia dello stare assieme e del divertimento.

È interessante sottolineare ancora come man mano che la vita procede, il gioco s’intreccia con altri aspetti e si trasforma, senza sparire, dando alla personalità di Don Bosco delle fattezze singolari. Nell’episodio del saltimbanco di Chieri, che distrae i giovani dalle funzioni di chiesa, Don Bosco adopera la sfida del gioco come arma dissuasiva. Quando fonda un gruppo di ragazzi, la «società dell’allegria», il suo programma lo articolerà in tre punti: pietà, doveri (studio) e trattenimenti (compagnie, passeggiate, giochi). La capacità di immaginare e partecipare al gioco rimase in Don Bosco anche in età avanzata.

Le esperienze che modellarono, dunque, la sua personalità nell’infanzia furono: la famiglia, il senso religioso, il lavoro, il gioco, la socialità. Tutte queste esperienze e i valori insiti in esse, sviluppate, fuse vitalmente e divenute sintesi pedagogica attraverso la riflessione, conformano il suo Sistema educativo.

Non si può dire la stessa cosa di tutti i Santi, né di tutti gli educatori. Non per tutti si può scrivere un capitolo sul gioco, né di tutti si può pensare una completa biografia sotto questo profilo. Vi sono alcuni che hanno preferito fare il bene attraverso scuole, ospedali o missioni popolari gioiosamente, ma non hanno incorporato il gioco nell’esperienza e nel programma della propria o altrui santificazione.

Elemento di pastorale

Quando Don Bosco fu ordinato sacerdote pensò la propria azione pastorale, mettendovi il gioco come elemento fondamentale. Il suo primo programma si esprimeva in un trinomio: giocare, stare assieme, fare catechismo.

Lui stesso giocava con i ragazzi. Non fu difficile constatare che il cortile attirava più della chiesa. Molti giovani che non sarebbero venuti in chiesa, erano invece attratti dal cortile. Non solo, ma in questa prima esperienza percepì l’importanza del gioco nella totalità della vita del ragazzo povero, sottomesso al lavoro durante la settimana, costretto alla dipendenza e condannato all’assenza di legami affettivi gratificanti.

«L’esperienza ha fatto conoscere – scriverà al ministro Francesco Crispi – che si può efficacemente provvedere a queste quattro categorie di ragazzi: coi giardini di ricreazione festiva, con l’amena ricreazione, con la musica, con la ginnastica, coi salti, con la declamazione, si raccolgono con molta facilità. Con la scuola serale poi, con la scuola domenicale e col catechismo, si dà alimento morale proporzionato e indispensabile a questi poveri figli del popolo» (Il Sistema Preventivo applicato negli Istituti di rieducazione. Promemoria al Ministro Francesco Crispi 1878).

L’importanza del gioco per il giovane era stata percepita anche da altri, ma forse alcuni non gli avevano attribuito altra finalità che quella di un onesto passatempo: la formazione viene dal lavorare – era il loro pensiero – dallo studiare; il gioco prepara ed assicura le energie e la disposizione per quei momenti che sono quelli che realmente contano.

Don Bosco, nella sua esperienza di educatore, percepì che il gioco, oltre ad essere un elemento equilibrante e quindi necessario, sviluppa aspetti specifici nella formazione totale del ragazzo. È divenuto, quindi, per lui oggetto di riflessione, di osservazione, di organizzazione e di guida.

Scrive egli stesso del suo Oratorio: «Io avevo già fatto disporre di quanti più giuochi potevo, il cavallo di legno, l’altalena, le sbarre per il salto, tutti gli altri attrezzi di ginnastica». Così il gioco concepito sin dall’inizio come un punto importante nel programma educativo e pastorale, seguiva il calendario liturgico e l’itinerario catechistico, e segnava la vita della comunità giovanile. I giochi erano ordinari tutte le domeniche, ma diventavano straordinari nelle principali festività.

Allo stesso modo che il calendario festivo nella vita oratoriana, il gioco segnava il ritmo e le fasi dello sviluppo dell’opera di Don Bosco. Si fece più complesso, più svariato, più organizzato, fino a dare origine financo «a ruoli». Don Bosco nel regolamento del suo Oratorio ideò tutto un capitolo che ha come titolo: «Degli invigilatori dei giuochi», di cui voi, forse, siete i successori.

Per curiosità vi leggo alcuni articoli:

– articolo quinto. I trastulli sono affidati a cinque invigilatori, di cui uno sarà capo.

– articolo sesto. Il capo invigilatore tiene registro del numero e qualità dei trastulli, e ne è responsabile. Qualora ci vogliano provviste e riparazioni ai trastulli ne renderà consapevole il prefetto.

– articolo settimo. Gli invigilatori presteranno i loro servizi due per domenica. Il capo veglia solamente che non avvengano disordini, ma non è tenuto a servizio, eccetto che manchi qualcuno degli invigilatori.

– articolo undecimo. È particolarmente raccomandato agli invigilatori il procurare che tutti possano partecipare a qualche divertimento, preferendo sempre quelli che sono conosciuti pei più frequenti dell’Oratorio. (Regolamento dell’Oratorio di S. Francesco di Sales. Ediz. 1877, cap. XII Regolatori della ricreazione).

Ma oltre all’organizzazione degli «invigilatori», viene descritta la funzione che Don Bosco attribuiva al gioco nell’insieme del programma educativo. Lo documenta il cap. III (2ª parte) del Regolamento che porta come titolo: «Contegno nella ricreazione».

È interessante anche a questo riguardo consultare le tre biografie esemplari, quelle cioè di Domenico Savio, di Michele Magone e di Besucco Francesco.

Parlando di «esemplarità» ci si aspetterebbe che di un giovane vengano presentati soltanto l’amore allo studio, alla pietà; la buona educazione, la carità verso il prossimo. Invece nelle tre biografie appare sempre il momento del gioco. Uno di questi ragazzi è agile, vivace e scatenato, e potrebbe essere un numero uno dello sport: è Magone. Un altro è gracile e «niente pratico di certi esercizi ricreativi» (Vita del giovane Besucco Francesco, cap. XVII), ma interpretando un consiglio di Don Bosco: «la ricreazione piace al Signore» (ib.) volle «abituarsi a far bene tutti i giuochi che hanno luogo tra i compagni» (ib.). Dopo lepidi incidenti riceve da Don Bosco questa indicazione: «i giuochi devono impararsi poco alla volta, di mano in mano che ne sarai capace. Sempre per altro in modo che possano servire di ricreazione, e mai di oppressione al corpo» (ib.).

Una pedagogia del gioco

Il gioco è considerato un punto del programma della formazione del giovane. Attraverso il lungo cammino percorso da noi soltanto a volo d’uccello, cioè esperienze spontanee, scelte pastorali, riflessione educativa, maturò una pedagogia del gioco che preferisce alcune modalità, sottolinea alcune esigenze e coglie alcuni valori.

Il gioco libera la gioia. Per questo è retto dalla spontaneità. È manifestazione di un equilibrio spirituale e mezzo per rafforzarlo.

Don Bosco dice: «Ciascuno scelga, tra molti, il gioco in cui si sente più libero». Comporta però una disciplina propria e di vita, accettata, capita e personalizzata. Ci sono tempi, forme e regole per il gioco.

Al gioco si attribuisce la capacità di far riposare la mente e al tempo stesso di mettere in esercizio e sviluppare forze corporali. E c’è una preferenza per i giochi di movimento su quelli sedentari.

Accanto a questi valori, che sono interni al gioco, ci sono i valori dell’incontro con gli altri: la buona educazione, la capacità di collaborazione, l’amicizia, la generosità.

Infine si apprezza l’influsso del momento ludico su tutto il processo educativo. Interessante ricordare l’episodio di quel giornalista che visitò l’Oratorio di Don Bosco e, vedendo la disciplina naturale, calma e allegra che vi regnava, chiese come la ottenesse. Don Bosco diede letteralmente questa risposta: «Noi invece di castighi, abbiamo l’assistenza e il giuoco». Cioè, essere presenti, condividere e impegnare la vitalità dei giovani nei giochi.

Perciò aveva detto: «Si dia ampia libertà di saltare, di correre, di schiamazzare a piacimento. La ginnastica, la musica, le passeggiate sono mezzi efficacissimi per ottenere la disciplina».

Per tutto questo il cortile aveva un valore particolare per la conoscenza del giovane. In esso il ragazzo, decondizionato, mostrava spontaneamente le sue tendenze, la sua vitalità, le sue capacità.

Il cortile era il luogo adatto a far cadere una parola. Lui dice di se stesso: «Io mi servivo di quella smodata ricreazione per insinuare nei miei allievi pensieri di religione. Agli uni con una parola nell’orecchio raccomandavo maggior ubbidienza e maggior puntualità nei doveri del proprio stato» (M.O.).

Non solo ha scritto che il cortile è un luogo privilegiato di educazione, ma addirittura l’istituzione tipica che lui fondò, che è l’Oratorio festivo, ha nella definizione un riferimento ludico fondamentale. Fondamentale perché l’Oratorio si regge su due colonne: giocare ed imparare la verità della fede. È vero che una è più importante dell’altra; ma togliete una qualunque delle due e la fisionomia dell’Oratorio sparisce. Egli dà questa definizione dell’Oratorio: «Lo scopo dell’Oratorio è di intrattenere la gioventù nei giorni di festa con piacevole e onesta ricreazione, dopo aver assistito alle sacre funzioni». Catechismo e gioco sono i due grandi riferimenti dell’istituzione che lui chiamò Oratorio festivo.

Siccome l’Oratorio è stata la prima delle iniziative di Don Bosco e l’iniziativa tipo su cui tutte le altre di sono modellate, questo binomio «catechesi e gioco» è passato in quasi tutte le opere salesiane. Non si concepisce, dunque, nemmeno una scuola salesiana che non abbia, almeno come complemento, iniziative ricreative e sportive.

Perciò il suo consiglio ai salesiani: i ragazzi, forse senza esserne coscienti, considerano quasi un obbligo scontato che il maestro dica a scuola una parola religiosa o morale, mentre quando qualcuno parla loro informalmente in cortile intuiscono che lo fa per vera amicizia, e la parola raggiunge il cuore.

Il cortile era il luogo privilegiato per la familiarità. Nella lettera dell’84, considerata dai salesiani come un documento importante del loro patrimonio educativo, Don Bosco suggerisce di badare non a ciò che capita nella chiesa o nella scuola, ma a quello che si avverte nel cortile. È questo il riflesso e la manifestazione dello stato interno dei ragazzi e del rapporto educativo favorevole o meno.

Secondo tempo: UNO SGUARDO ALL’OGGI

Interrogativi

Abbiamo guardato al passato; guardiamo ora un po’ all’oggi.

Ci fu un tempo in cui gioco e pastorale erano naturalmente fusi e nessuno si domandava se valesse la spesa animare il gioco per raggiungere un obiettivo pastorale. Il salesiano che animava il gioco, e più tardi lo sport, era sicuro che questo era collegato a tanti altri contenuti e momenti di pastorale e di educazione ed inserito in un programma unitario che lui considerava valido.

La presenza, il rapporto personale operavano vitalmente la sintesi. Non solo c’era raccordo tra le diverse attività, ma anche proporzione e gerarchia. I giovani stessi erano disposti al gioco e alle altre proposte.

Poi, forse, in un secondo momento, c’è stata una rottura pratica, per cui qualcuno ha potuto pensare che il gioco nel senso di puro divertimento o di preoccupante organizzazione aveva preso un tale sopravvento da far dimenticare gli obiettivi pastorali ed educativi. Nei nostri campi di gioco – si diceva – i ragazzi e soprattutto i giovanotti vengono solo per giocare (giocano e se ne vanno!), vanificando così l’intenzione educativa del salesiano.

Più assillante ancora il problema quando si poneva in termini di pastorale: noi mettiamo a disposizione una grossa organizzazione, ma il ragazzo gioca e se ne va. Che rende questo in termini di pastorale? In termini di evangelizzazione e di maturazione cristiana?

Rileviamo, per inciso, che questa rottura non avveniva solo nello sport, ma si percepiva anche nella scuola. Alcuni infatti hanno creduto di vedere degli scollamenti insuperabili tra l’insegnamento come viene proposto oggi e la pastorale. Si diceva: un ragazzo, irreggimentato nei compiti e negli orari scolastici, deve ingoiare dati e conoscenze; ma viene anche educato ed evangelizzato? Riesce il salesiano a fare con lui un cammino di fede, data la preoccupazione preponderante del ragazzo di compiere un dato corso e ottenere semplicemente un diploma?

Da questa rottura è venuta una specie di alternativa, per cui i salesiani si chiedevano: noi abbiamo delle forze limitate; dove le impegniamo? Ci conviene riversarle nello sport o piuttosto impegnarle nelle catechesi? Dobbiamo rimanere nell’insegnamento o piuttosto emigrare in altre aree più «religiose»?

Si potrebbe aggiungere che questo «esodo» verso una scelta «più religiosa» era appoggiata su ragioni non spregevoli.

Come religiosi e pastori la nostra area specifica è quella della esperienza di fede; in quest’area diminuiscono gli operatori a tal punto che le Chiese locali ci chiedono d’impegnarci più abbondantemente nella cura più esplicitamente «pastorale» del popolo. Altri campi sono per noi di «supplenza» e conviene che li lasciamo man mano che altre forze provvedono. D’altra parte le attività «religiose» gratificano in risultati pastorali e hanno per se stesse un impatto loro proprio sui valori e le attività dell’uomo.

A contrappeso di queste ragioni per trincerarsi nelle sole attività religiose c’è la constatazione che i temi secolari trascurati finiscono per rifluire negativamente sulla fede, rimpicciolendone il campo e neutralizzando la significatività. Basti pensare a quello che è capitato col lavoro, il movimento femminile ed altri fenomeni.

Da tutto questo scaturiscono alcune domande: perché i salesiani continuano ad animare attività sportive? Essendo religiosi e sacerdoti non converrebbe loro spendersi più nella catechesi, nella liturgia, nella scuola di religione?

Collegate con queste vengono altre domande: intendono i salesiani rimanere o ritirarsi dallo sport? Se diminuissero le forze, smobiliterebbero totalmente le risorse dell’animazione dello sport?

E ancora: l’attività sportiva è campo per la pastorale e l’educazione? Si può educare ed evangelizzare? In che senso? A quali condizioni? Si nota, infatti, che, a secondo del tipo d’intervento che fa l’educatore, alcuni campi sportivi sono soltanto ambienti di distensione e di trattenimento ed altri sono luoghi di educazione. Ma si vede anche che l’ansia che si scarica sulle domande proviene da un certo modo di intendere la pastorale e l’educazione.

Da ciò l’ultima batteria di domande: le attività sportive sono attività di serie B rispetto alla catechesi o alla scuola? Che cosa è preferibile: fare scuola, fare associazionismo religioso o animare polisportive?

Per rispondere a queste domande bisogna guardare a due elementi: alle scelte pastorali tipiche dei salesiani e a ciò che oggi lo sport rappresenta per tutti, ma particolarmente per i ragazzi.

Le scelte di base

Guardiamo, dunque, alle scelte tipiche dei salesiani. Essi intendono dedicarsi ai giovani, non ad un gruppo particolarmente scelto per la qualità oltre richieste che presentano, cioè a pochi giovani; ma al più grande numero dei ragazzi «comuni».

Voglio portare la vostra attenzione su questo: non soltanto giovani scelti dal punto di vista sociale, economico, culturale e nemmeno religiosamente scelti, cioè quelli che sono già molto avanti nella conoscenza della fede, con i quali si potrebbe formare un gruppo impegnato; ma il più grande numero, quei giovani cioè che, pur non essendo mossi da alti ideali di tipo religioso, culturale o sociale, sono coinvolti nelle esperienze più comuni della vita, tali come la famiglia, la scuola, il tempo libero, il loro futuro. Questa preferenza verso i destinatari li spinge a collocarsi in quelle aree dove i giovani poveri, comuni si trovano.

C’è un altro elemento che riguarda le scelte dei salesiani: è il criterio d’intervento che si sono proposto. Come sacerdoti, come religiosi intendono annunziare il Vangelo e far crescere le persone nella fede. Questo è pastorale. Sarebbe quanto meno strano che un sacerdote, un religioso si dedicasse a gestire un’organizzazione sportiva, per offrire spettacoli o guadagnare soldi o semplicemente per promuovere lo sport. Questo è tipico dell’imprenditore e dell’animatore sportivo.

Quando un salesiano interviene nello sport lo fa certamente, pur senza strumentalizzare il gioco, per far emergere i valori e il senso evangelico contenuti in ogni esperienza di vita che i giovani fanno.

Ci sono diverse vie per fare pastorale. L’obiettivo è uno: le vie e modalità possono variare. Una di queste vie è sviluppare alcune attività proprie e solo della Chiesa: la catechesi, la liturgia, la predicazione al popolo.

Si dice che i salesiani scelgono anche il cammino e l’area dell’educazione. Ciò vuol dire, negativamente, che non si assumono soltanto attività e temi religiosi; positivamente che intervengono anche in quelle attività legittime e comuni dell’uomo, in cui è possibile far crescere le persone, come sono il lavoro, la scuola, lo sport.

Questa seconda scelta è in consonanza con la precedente, quella del più grande numero possibile di giovani. Difatti gli interessi legittimi legati alle esperienze fondamentali della vita sono la situazione di partenza che il maggior numero dei ragazzi presenta, per far con loro un cammino di evangelizzazione.

Terza scelta è la sensibilità missionaria. Per spiegarla potremmo usare una frase di Don Bosco: «Io voglio essere il parroco dei giovani che non hanno parrocchia, io voglio essere il maestro di quei giovani che non hanno scuola». In altre parole: quelli che vanno in chiesa hanno già chi li cura; quelli che vanno a scuola hanno già il maestro; rimane quella porzione di giovani che non si riconoscono né nell’istituzione religiosa, né nelle istituzioni educative. Di essi voglio essere il parroco. Questa si chiama mentalità missionaria: andare incontro alle persone, non aspettare soltanto che i ragazzi vengano da noi.

Chi ha questa mentalità non può limitarsi a trattare soltanto temi tipici della Chiesa o a intervenire soltanto in aree «ecclesiali»; ma si fa presente in quei temi e in quelle preoccupazioni che sono comuni ad ogni uomo, credente e no, praticante o lontano; temi che potremmo chiamare «secolari», perché non nascono nella Chiesa, ma tra gli uomini; non esprimono nel loro nascere un tema religioso, ma un interesse culturale, un’esigenza umana. L’«andare verso» infatti non si applica soltanto in senso geografico, ma in senso di interessi, mentalità e situazioni di vita.

Da queste tre scelte, che sono determinanti, scaturiscono le indicazioni operative:

– dare importanza alle esperienze di vita giovanili (acquisizione di cultura, amicizia, inserimento sociale), scorgendo in esse consistenza umana ed evangelica;
– fondere continuamente evangelizzazione ed educazione in modo tale che si richiamino e si implichino. Si tratta di aiutare a vivere le esperienze quotidiane, aprendo alla fede e annunciando il Vangelo, e di vivere questo assumendo (e non lasciando da parte) la totalità del dinamismo personale e sociale;
– da ciò il doppio movimento o direzione degli sforzi: la persona e l’ambiente, sviluppare l’individuo, trasformare l’ambiente e la collettività.

I salesiani, dunque, per aver scelto il maggior numero di giovani, per aver scelto la strada dell’educazione e non soltanto quella dell’istruzione religiosa, per aver scelto la strada missionaria, cioè di cercare anche quelli che non hanno raggiunto ancora coscienza di essere membri della Chiesa ma sono disponibili, e per le linee operative che da queste scelte scaturiscono, s’interessano sinceramente ai temi che gli uomini trattano, in vista della crescita della persona e della società (ambiente, territorio, collettività).

Lo sport di fronte alle scelte

C’era un altro punto che volevamo collegare nella nostra impostazione: il significato dello sport.

Lo sport è proprio una di quelle esperienze giovanili generali; è una realtà secolare, una di quelle il cui richiamo sentono tante persone non ancora sensibili al tema religioso; è un’esperienza che offre l’opportunità di partecipare all’elaborazione della cultura e della vita del territorio; è un’esperienza che aiuta a crescere umanamente le singole persone; è un tema all’interno del quale è possibile far sorgere domande di senso e intessere rapporti.

Ci sarebbe un lungo discorso da fare sullo sport come esperienza di vita del giovane e dell’adulto; è un’esperienza che include aspetti individuali e socio-culturali di segno diverso. Perché lo sport è agonismo, è realizzazione personale, è incontro interpersonale, è disciplina, è solidarietà. Così come è commercio, consumo, spettacolo, trasmissione di atteggiamenti, norme e mito. Mac Luhan, profeta delle comunicazioni sociali, diceva: «Le visioni e le esperienze sociali di una generazione si possono trovare codificate nello sport. Vedete come gioca una generazione oggi e forse vi troverete il codice della sua cultura».

Possiamo fare un paragone rapido: un tempo il gioco era rituale, maschile ed elitistico, perché la società era sacrale, gerarchica e poggiava sui maschi. Oggi è massivo, funzionale ai bisogni, gestito come «industria». Riproduce l’organizzazione tipica della società tecnica. È uno specchio, un canale, un contenitore così com’è un’evasione e un elaborato di questa società.

Huitzinga ne mette a fuoco l’influsso educativo. La cultura umana viene trasmessa principalmente attraverso il gioco, che costituisce uno dei principali canali comunicativi tra le generazioni.

Se adesso vogliamo rispondere alle domande che abbiamo formulato, siamo in grado di farlo. Perché i salesiani si collocano anche nello sport e non soltanto nelle scuole e nella catechesi?

Perché nello sport e con lo sport incontrano un gran numero di giovani; nello sport accompagnano i giovani in un’esperienza umana, ricca di valori individuali e sociali; perché attraverso questa esperienza e altre simili possono mettere la vita in rapporto con la fede, rendendo quest’ultima significativa, saldandola con momenti e preoccupazioni quotidiane; perché nell’esperienza dello sport si ripromettono di raggiungere col messaggio anche coloro che in principio non lo chiedevano; e perché inoltre si offre loro la possibilità di formare gruppi, creare ambienti, partecipare nel territorio, essere presenti nell’elaborazione di un aspetto della cultura. Per tutto questo i salesiani non abbandoneranno facilmente l’area sportiva! Lo sport è un campo che offre delle possibilità educative.

Terzo tempo: CONDIZIONI E ITINERARI

Ma qui si aggancia il terzo momento: a quali condizioni il gioco e lo sport sono interessanti dal punto di vista educativo e pastorale?

Non è il fatto materiale, inerte e grezzo dello sport consumato passivamente a produrre la desiderata crescita del ragazzo, ma la qualità dell’incontro che il giovane fa con lo sport, mediato dall’educatore. Non è lo stesso fare sport semplicemente e fare educazione nello sport. Non a qualunque condizione lo sport risulta educativo. Ci sono, infatti, a riguardo dello sport, diversi tipi d’interventi, tutti legittimi, ma con finalità diverse.

Ci può essere un gruppo di persone che si propone di organizzare uno spettacolo sportivo, affinché l’utente usufruisca e paghi. Non entra nelle sue preoccupazioni che questi cresca o meno in determinati valori. Ci può essere un intervento di tipo politico per regolare l’uso sociale.

L’intervento formalmente educativo si caratterizza dalla finalità di far crescere le persone non soltanto nei valori più immediatamente legati allo sport, come la capacità motoria o la competitività, ma nella loro totalità.

Perché il nostro intervento sia educativo e pastorale ci vogliono, dunque alcune condizioni. Nello sforzo di individuarle troveremo anche le linee su cui progredire. Ne enuncio solo quattro.

Prima condizione è acquisire una conoscenza appropriata e sistematica del fenomeno sport. Ciò vuoi dire superare l’informazione frammentaria, aneddotica e superficiale, per approfondire il significato e l’influsso che lo sport ha sullo sviluppo del giovane e sulla cultura. Con parole un tantino serie si direbbe possedere una «antropologia dello sport».

Si sa che nella società attuale lo sport è affermazione individuale, distensione personale e talvolta collettiva; ma è anche organizzazione, commercio, rito e divertimento massificato!

Quando noi cerchiamo di entusiasmare i giovani trasciniamo, mescolati nella nostra proposta, sia gli elementi buoni che gli elementi devianti. Se questi ultimi prendono una supremazia indebita, lo sport diventa alienazione.

Spingendo le cose su una certa linea, potremo fare dei consumatori di attività sportive: spingendole su un’altra linea possiamo formare un uomo che apprezza la sua corporeità, che è capace di un incontro anche ludico con gli altri, che cerca con concretezza il suo più conveniente equilibrio.

Questi aspetti non si scoprono se non si è capaci di considerare da educatore il prodotto che tutti consumano. Non ci sarà una pedagogia dello sport se gli animatori sportivi non sono capaci di individuare quali valori umani sono rafforzati e quali invece sono mortificati in una data concezione dello sport.

Pensate voi che una persona potrebbe educare nella scuola senza sapere per niente i significati e le interpretazioni che vengono travasate nelle conoscenze che insegna?

Conoscenza dell’area sportiva vuol dire sapere che cosa comunichiamo, quando offriamo una proposta sportiva.

Seconda condizione. Nell’intervento puramente commerciale i fini soni lo spettacolo e il guadagno. I fini si riferiscono alle cose. Le persone sono strumenti.

Procedere con criterio educativo è mettere la persona al di sopra dell’organizzazione, al di sopra dello spettacolo e al di sopra dei trofei.

Quando un uomo organizza lo sport in ordine al guadagno, pensa allo spettacolo; quando l’organizza in funzione dei trofei, pensa alla vittoria; quando lo prepara educativamente, spettacolo, guadagno e trofei sono secondari e funzionali allo sviluppo della singola persona che viene aiutata attraverso l’attività sportiva. Per lo spettacolo si comperano e si coltivano i campioni; nell’educazione si coltiva il ragazzo «normale».

Procedere con criterio educativo è avere un obiettivo: la crescita integrale. Lo sport non interessa soltanto come esercizio motorio e diversivo, ma come possibilità di fare con le persone un dialogo su tutti i valori che le interpellano. L’agonismo è importante, ma non è il valore supremo, né l’unico. Lo sguardo dell’educatore non svuota gli aspetti colti e cercati dal ragazzo in un primo approccio con lo sport, ma si apre anche ad altri aspetti che sottostanno. Lo sport non è un’esperienza «risolutiva»: deve agganciarsi ad un piano personale e sociale più vasto.

Cercare la crescita integrale richiede di percorrere certi itinerari educativi, attraverso i quali da ciò che immediatamente si coglie nello sport stesso, si va oltre e si abilita il giovane a vivere da uomo quegli atteggiamenti che lo accompagneranno anche fuori del momento sportivo.

Procedere con criterio educativo vuol dire, infine, applicare un metodo basato sulla presenza e il rapporto personale. Mi spiego con una battuta: chi non intende fare un intervento educativo organizza un locale o uno spettacolo e li gestisce a distanza o attraverso impiegati. È un manager! Come altri offrono macchine o sigarette, lui offre attrezzature e strutture.

Scelta del metodo educativo significa essere presente al ragazzo, individualizzando e personalizzando: arrivare a ciascuno di questi giovani o ragazzi per comprendere insieme la loro vita e aiutarli a darle unità, qualità e orientamento.

In ciò sta la differenza tra un organizzatore dello sport e un educatore nello sport: il primo può avere un rapporto lontano e indiretto e può trattare la realtà in termini di numeri, di date, di organizzazione; il secondo invece tratta con le persone in modo immediato, in termini di valori, di esperienze e significati.

Se si assumono questi criteri, cioè la persona sull’organizzazione, la crescita dei ragazzi sullo spettacolo e sui trofei e il rapporto personale sull’efficienza, una palestra e un cortile possono essere equivalenti ad una scuola..

Una terza condizione, una volta conosciuto il fenomeno che trattiamo e assunto un criterio educativo, è costruire itinerari educativi e pastorali costantemente riformulati man mano che vengano collaudati dalla pratica. L’itinerario è costituito da una serie di traguardi collegati verso mete finali, con indicazioni pratiche di atteggiamenti, contenuti ed esperienze per percorrerli. Questi itinerari devono portare un giovane dalla prima esperienza spontanea dello sport, che consiste nel fruire del movimento, della competizione, dell’affermazione, verso obiettivi più alti, come sono la collaborazione, il rispetto dei rivali, la crescita della responsabilità sociale.

Alcune indicazioni molto generali per camminare in questo essere totali riguardano la presa di coscienza del carattere effettivamente alienante di molto sport. Poiché il giovane che gioca e che va al campo sportivo deve essere cosciente delle caratteristiche della cultura del suo tempo, non può ignorare i pericoli di mercificazione che ci sono in un certo fenomeno sportivo e deve saper distinguere quando lo sport è al servizio dell’uomo e quando, al contrario, lo prende nelle sue reti. Prendere coscienza è arrivare ad una comprensione profonda dei meccanismi di manipolazione che ci possono essere nello sport.

Un altro traguardo dell’itinerario: sviluppare le possibilità educative specifiche dello sport, per esempio il senso della corporeità, il valore della vita di insieme, il senso della disciplina e dello sforzo, il rispetto delle norme.

Il fondatore delle Olimpiadi, Pierre de Coubertin, pensava che lo sport era una nuova forma dell’educazione alla convivenza democratica a livello internazionale. Secondo lui, attraverso le grandi manifestazioni e i confronti sportivi, si poteva educare la gente alla accettazione ragionevole di una disciplina sociale concordata, alla partecipazione intensa e all’accettazione dei diversi ruoli delle persone, basati sull’eccellenza e sul servizio.

Un terzo passo: sviluppare i valori concomitanti che non emergono dalle attività sportive in sé, ma appartengono alla situazione, ad un contesto in cui si pratica lo sport. Si tratta di creare un ambiente umano, ricco di esempi e di valori, nel quale vengono inserite le attività ludiche.

Finalmente occorre collegare l’attività sportiva con altre aree ed esperienze. Lo sport non può essere un compartimento stagno che non comunica con le altre esperienze e attività e momenti della vita. Bisogna fare un raccordo delle esperienze di modo che le une influenzino le altre.

E così come esistono itinerari educativi, così esistono anche itinerari che sono tipicamente pastorali, non posteriori o dissociati dai primi.

Alcune indicazioni per essi potrebbero essere la «desacralizzazione dello sport», spogliarlo cioè di una certa autosufficienza in ordine alla soddisfazione dei bisogni; evidenziare il suo carattere subalterno rispetto ad altri problemi e desideri dell’uomo: non è la cosa principale e, se riesce a prendere tutto il cuore e tutta la mente, diventa un «idolo» e provoca dipendenza.

Si possono poi accogliere e sollevare domande di senso, quelle cioè che le situazioni esistenziali provocano e a cui l’educatore può dar risposta.

È questo il momento in cui l’educatore saggio sa guidare il giovane, non dando soluzioni facili ed immediate, ma abilitando alla serietà della ricerca e a superare l’indifferenza e il qualunquismo davanti agli interrogativi dell’esistenza. Ancora si può annunciare il senso cristiano e trascendente della vita attraverso un insieme di stimoli privilegiati vicini e, forse, interni all’esperienza ludica e sportiva. Attraverso lo sport si può difatti persino coinvolgere nel servizio del prossimo.

Ecco allora una quarta condizione per un intervento educativo nello sport: l’esistenza di una comunità che sia soggetto dei processi di crescita, attraverso forme di coinvolgimento, dialogo e partecipazione. Ciò aggancia il discorso a tre punti, ai quali accenneremo soltanto: la comunità di riferimento, il gruppo di animatori, il ruolo dei salesiani.

Quando l’organizzazione sportiva si inserisce in un ambiente giovanile più largo (es. un centro giovanile) è interessante dare e ricevere, affinché l’ambiente offra una proposta ricca e articolata. Partecipare alla vita e alle decisioni della comunità e completare il proprio programma con quello che le altre componenti offrono è un’indicazione fondamentale.

Ma all’interno del gruppo sportivo e della comunità totale ci sono gli animatori. Questi hanno un ruolo-chiave. Prima abbiamo affermato che i salesiani vanno all’incontro di tutti i giovani disponibili. Ma tra questi ci sono di quelli che mostrano disposizione a prestare un servizio con il loro lavoro. Ecco che all’interno del grande numero emerge un gruppo scelto e capace, che va aiutato a progredire.

Il compito dei pochi salesiani e FMA si riferisce principalmente e in primo luogo a questi animatori: alla loro qualifica cristiana, professionale e salesiana. Sono gli animatori degli animatori.

Cosa vuol dire animare una comunità educativa? Coinvolgere attivamente nella definizione di obiettivi e linee operative; favorire la partecipazione, unire le persone, costruire la comunione. Animare vuol dire anche curare la formazione permanente.

Il futuro di un’associazione dipende dalla capacità di aiutare i propri collaboratori a crescere. Delle associazioni sportive hanno sofferto degrado, dopo partenze promettenti, perché non avevano quasi nessuna preoccupazione di tenuta e di progresso, cioè non rivedevano né orientamenti, né lettura della realtà, né itinerari, preoccupati soltanto dell’organizzazione; soprattutto non rafforzavano la capacità delle persone con nuove sintesi, prospettive e abilità.

Le persone perdevano così la carica di animatori e di educatori insieme all’incisività d’intervento.

La formazione permanente si sviluppa soprattutto su tre fronti. In senso professionale, che comporta il dominio delle conoscenze e della prassi pedagogica; in senso cristiano, e ciò comporta l’approfondimento dell’identità cristiana e la capacità di annunciare il Vangelo; e, per gli ambienti salesiani, sul fronte salesiano che include la conoscenza delle scelte tipiche, la loro fondamentazione, la loro applicazione pratica.

In associazioni come la vostra lavorano pochi salesiani insieme a molti laici. I salesiani dovrebbero essere i motori, cioè persone che curano soprattutto la qualità, la carica umana e cristiana di coloro che collaborano.

Concludendo

Il gioco e lo sport hanno un legame particolare con i salesiani, e questo non è un fatto irriflesso, ma è collegato a scelte volute e confermate: la scelta del campo giovanile, la scelta dell’educazione, la scelta della missionarietà, la scelta di determinare linee operative.

In quest’area noi possiamo avere un intervento educativo e pastorale solo a certe condizioni. È interessante che ribadiamo il buon proposito di rimanere, ma da educatori e da pastori per la maturazione umana dei giovani e per la crescita della loro fede.

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